Scugnizzi e puntazze
Se non l’avete ancora visto, correte ai ripari e mettetevi comodi per un paio di sere su RaiPlay. Perché una roba come Scugnizzi per sempre era un bel pezzo che non la incrociavo sui miei radar. E parlo non solo di qualità del racconto (interviste, immagini d’archivio, ricostruzione storica), ma proprio della scelta di mettere a fuoco una storia tutto sommato oltre il cerchio dei canonici riflettori.
I meno avvezzi al mondo del basket devono sapere che, fino agli anni Ottanta, il pallone a spicchi in Italia era monopolio di un quadrilatero costituito da Milano, Bologna, Cantù e Varese. E pertanto fu davvero epocale, nel 1991, il successo (primo e unico) della Juvecaserta, a cui sono dedicate le sei puntate del documentario.
Detta così sembra di raccontare una irresistibile ascesa, ma in realtà il percorso della Juvecaserta fu molto più complicato. Certo, avevano la fortuna di avere un presidente disposto a spendere (Maggiò padre e, poi, figlio), ma a un certo punto vissero il complesso degli eterni secondi – ovvero di quelli bravi, che però lo scudetto non riuscivano mai a vincerlo. Quando invece centrano l’obiettivo, la loro ossatura (a parte Sandro Dell’Agnello) è costituita da casertani: gli scugnizzi, appunto. Due nomi su tutti: Nando Gentile e Enzino Esposito, che giocavano assieme sin da bambini.
Se ci pensate, è un po’ quel che accadde al Napoli di Maradona – che aveva Maradona, e vabbè, ma circondato da napoletani. Alcuni di enorme talento (De Napoli, Ferrara, Romano), altri più operai (Bruscolotti, Volpecina, Carannante), ma tutti accomunati da quella che, a un certo punto, divenne una vera e propria causa collettiva: il primo scudetto meridionale. La stessa della Juvecaserta.
La cosa curiosa è che il Napoli di Maradona aveva Maradona in squadra. La Juvecaserta, invece, il suo Maradona (Oscar Schmidt, vale a dire il miglior realizzatore straniero di sempre) l’aveva appena ceduto, proprio per lasciare spazio agli scugnizzi. Cioè per prendere due giocatori apparentemente minori (Frank e Shackleford), ma funzionali a valorizzare il talento esplosivo di Gentile ed Esposito.
Ora, le voci di mercato della settimana appena trascorsa le conoscete tutti. C’è stata un’offerta per Coda e, a un certo punto, si è ragionato su una possibile cessione di D’Urso alla Triestina. E, forse, le due operazioni erano (almeno in parte) economicamente collegate. Sembra invece che su Nestorovski il vero rallentamento (più che il sondaggio del Santos) siano i dubbi del macedone sulla destinazione (e, a catena, i dubbi di Gemmi sul portare a Cosenza un calciatore non completamente convinto). In più si era ventilata anche un’uscita di Calò: Good loves gone bad, ho subito pensato io.
Passo indietro: è vero, una rondine non fa primavera (figuriamoci a fine agosto). Ma la prestazione contro l’Ascoli (almeno finché la crisi nervosa dei bianconeri ha tenuto la gara in parità numerica) era stata molto buona. Due cartellini rossi su tre (i primi due) nascono proprio dal fatto che, dopo l’1-0, il Cosenza non ha abbassato il proprio baricentro. Si intravede, cioè, un’identità (che ovviamente andrà osservata contro avversarie più strutturate per essere pesatacorrettamente) (ops, eccoci già a Venezia). E, lungi dall’essere paragonabili ai Gentile ed Esposito della Juvecaserta, la vera novità di questo avvio è la leggerezza (nel senso calviniano del termine) con cui i vari Arioli, Zuccon, Fontanarosa, Zilli e Cimino sono stati messi in campo. Ovvero: poche chiacchiere e pesi sulle spalle, tanta libertà.
E, allora, perché scioddrare il giochino? Fermo restando che mancano all’appello quei due/tre elementi di cui s’è già scritto una settimana fa, siamo sicuri che un vero upgrade arriverebbe per forza dai grandi nomi? Una risposta, se l’avremo, arriverà a mercato concluso. Per ora, le porte d’uscita per D’Urso e Calò sembrano chiuse. E, parere personale, è bene che lo siano. Perché si tratta di due calciatori la cui centralità tattica, al momento, appare recuperata. Bello da vedere D’Urso, l’anno scorso, ma quanto era intermittente? E Calò, al Ferraris, ve lo ricordate? Io no, per fortuna, ma solo grazie alla cura Ludovico.
Detto in poche parole (e senza che vi venga in mente di sostituire la parola scudetto con quell’altra), la situazione è speculare e contraria a quella della Juvecaserta. E cioè: lì c’era da cedere Oscar per prendere Frank e Shackleford. Qui, invece, l’operazione sarebbe stata quasi l’opposta.
Invece, pensate al beneficio tattico (e di spogliatoio) che possono avere D’Urso e Calò in questa rosa. Il secondo è esperienza al servizio della freschezza di Zuccon e Viviani. Il primo è, al momento, il trequartista più in palla della batteria alle spalle di Tutino.
Insomma, io non so se il ragionamento di Gemmi sia stato questo – e se la puntazza alla fine arriverà ugualmente. E non so nemmeno se, dopo la sfida del Penzo contro una delle squadre più accreditate al grande salto, saremo ancora tutti così entusiasti di Caserta o tornerà a impossessarsi di noi il senso del tragico e del simu scisi. Ma so che questa squadra ha fatto un ritiro e deve essere puntellata. E mi piacerebbe che arrivi e partenze non avvenissero a furor di veleni, dietrologie e nemmeno di fughe in avanti o stravolgimenti – ma solo sulla base dei desiderata di Caserta e delle capacità di Gemmi. Ecco tutto.
Un’ultima cosa, perché mi ha fatto molto sorridere un altro momento di Scugnizzi per sempre. Nella prima puntata, Gianfranco Maggiò ricorda perché suo padre scelse Boša Tanjević come allenatore: Perché, in fondo, noi più che gli americani guardavamo gli jugoslavi. Li abbiamo sempre sentiti più vicini. Non so se a Nestorovski possa interessare il fatto che pure io, da ragazzo, guardavo la ex Jugoslavia come al Brasile – e Pixie Stojković era il mio dieci preferito in assoluto. Ma sono sicuro che dovrebbe far riflettere quegli agenti che, sabato scorso, hanno rimosso una vecchia bandiera della Jugoslavia dagli spalti del Marulla. A volte c’è più politica in chi vieta che in chi espone. E, di questi tempi, a pensar male…