Antonio Forastefano agli arresti domiciliari, la Cassazione rimette tutto in discussione
Il boss pentito, estromesso dal programma di protezione, è al centro delle valutazioni della prima sezione penale che rimanda gli atti al tribunale di sorveglianza di L’Aquila
La Corte di Cassazione, prima sezione penale, ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza di L'Aquila aveva concesso la detenzione domiciliare ad Antonio Forastefano, detenuto nella casa circondariale di Lanciano ed ex collaboratore di giustizia. La decisione è intervenuta all’esito dell’udienza del 13 novembre 2025, accogliendo il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di L’Aquila.
Al centro della vicenda vi è l’applicazione dell’articolo 16-nonies della legge n. 82 del 1991, che consente, in presenza di determinati presupposti, la concessione di benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia anche in deroga alla disciplina ordinaria. Nel caso esaminato, il Tribunale di sorveglianza aveva ritenuto Forastefano meritevole della detenzione domiciliare, valorizzando la regolare condotta inframuraria, il percorso di risocializzazione, la positiva fruizione di permessi premio e la scelta di eseguire la misura in un luogo diverso da quello di commissione dei reati.
La Cassazione, tuttavia, ha rilevato come tale valutazione fosse incompleta e giuridicamente carente. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che Forastefano non è più titolare di uno speciale programma di protezione, revocato già nel 2015, e che nel 2017 il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva a sua volta revocato una precedente detenzione domiciliare, ritenendo le condotte del detenuto non coerenti con una reale scelta collaborativa. A ciò si aggiungono i pareri nettamente contrari espressi, nel procedimento oggetto di ricorso, dalla Direzione nazionale antimafia e dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che avevano qualificato la collaborazione prestata come «scarsamente rilevante» e persino «apparente».
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Secondo la Suprema Corte, questi elementi non potevano essere elusi o ridimensionati senza una motivazione puntuale. In particolare, viene ribadito un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità: ai fini della concessione dei benefici penitenziari ai collaboratori di giustizia, il ravvedimento non può essere presunto sulla base della sola collaborazione o dell’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Esso richiede la presenza di «ulteriori e specifici elementi, di qualsiasi natura», idonei a dimostrarne in positivo l’effettiva sussistenza, sia pure in termini di ragionevole probabilità.
La Corte chiarisce che il concetto di ravvedimento è unitario nell’ordinamento e non muta a seconda dell’istituto applicato. Lo stesso parametro vale tanto per la liberazione condizionale quanto per i benefici previsti dall’articolo 16-nonies della legge sui collaboratori. Se è vero che, per questi ultimi, la legge consente deroghe alle condizioni di ammissibilità, ciò non significa che possa essere attenuato o aggirato il requisito dell’emenda personale e della stabile risocializzazione. In altri termini, la collaborazione con la giustizia non esonera il giudice dall’accertare, con adeguato rigore, l’effettivo percorso di maturazione del condannato.
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Nel caso concreto, il Tribunale di sorveglianza di L’Aquila ha fondato la concessione della detenzione domiciliare quasi esclusivamente sulla condotta tenuta in carcere, senza confrontarsi in modo adeguato con i dati di segno contrario. In particolare, non ha spiegato per quali ragioni le pregresse condotte che avevano determinato la revoca del programma di protezione e della precedente detenzione domiciliare, così come i pareri negativi delle autorità antimafia, dovessero ritenersi non più ostativi. Manca, secondo la Cassazione, una reale comparazione tra gli elementi positivi emersi dall’osservazione intramuraria e il complessivo profilo del detenuto, segnato da una collaborazione giudicata di scarsa consistenza.
Quale percorso?
Il principio di diritto che emerge con chiarezza dalla decisione è che la concessione della detenzione domiciliare in deroga alla disciplina ordinaria, specie quando la pena residua supera i limiti temporali previsti, impone una motivazione rafforzata. Il giudice di sorveglianza deve rendere esplicite le ragioni per cui ritiene che il condannato abbia intrapreso un serio e credibile percorso di ravvedimento, tale da superare anche precedenti valutazioni negative e giudizi di inaffidabilità espressi in sede qualificata.