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16/09/2025 ore 06.30
Cronaca

Rocca Imperiale, chiuso dopo 30 anni il caso del Monastero e dell’area sport danneggiati da una frana

Rigettato il ricorso del comune dell’Alto Ionio cosentino. Per la Cassazione la colpa è dell’amministrazione che non collaudò le opere nei tempi dovuti

di Antonio Alizzi
Il Monastero di Rocca Imperiale

La vicenda parte da lontano. Nel 1992 il Comune di Rocca Imperiale affida a un’ATI la realizzazione di un’area attrezzata per sport e tempo libero e la ristrutturazione del Monastero. I lavori vengono ultimati nell’estate 1998: stato finale e certificato di ultimazione portano la data del 28 luglio (per le opere aggiuntive) e dell’11 maggio 1998 (per quelle principali), con consegna provvisoria al Comune il 24 luglio per consentire le attività estive. Restano solo dettagli marginali (reti e retini) sui campi sportivi. Il collaudo, però, non arriva entro i sei mesi ordinari: sarà redatto solo nel 2001. Nel frattempo, tra l’inverno 1999 e il 2000, una frana importante interessa proprio la zona dei campi di hockey e pattinaggio, danneggiando recinzioni, impianti e porzioni delle opere.

Il Comune cita in giudizio l’ATI sostenendo che le opere fossero incomplete e il cantiere in stato di abbandono. Tribunale di Castrovillari prima e Corte d’appello di Catanzaro poi rigettano le domande dell’amministrazione: i giudici ricostruiscono che le opere erano state “eseguite a perfetta regola d’arte” (per il Monastero la Commissione di collaudo aveva parlato di qualità “ottima”) e che i danni sopraggiungono a causa di un movimento franoso sopravvenuto, di proporzioni tali da richiedere interventi di stabilizzazione del versante, non imputabili all’appaltatore.

Il Comune ricorre in Cassazione richiamando gli obblighi di buona fede e sostenendo che, essendo l’ATI in ritardo alla data della frana, doveva comunque rispondere dello stato delle opere. La Suprema Corte rigetta. Il cuore della motivazione sta in due punti-cardine del diritto dei contratti d’appalto.

Primo: il regime del rischio prima dell’accettazione. L’articolo 1673 del Codice civile stabilisce che se l’opera “perisce o si deteriora” per causa non imputabile a nessuno prima dell’accettazione o prima che il committente sia in mora a verificarla, il rischio grava sull’appaltatore (salva la diversa ripartizione della materia). Ma qui la Cassazione sottolinea un passaggio decisivo: l’ente non ha collaudato entro il termine dovuto. In materia di opere pubbliche, la legge (all’epoca, art. 5 l. n. 741/1981) impone tempi certi per il collaudo; se decorrono inutilmente, l’amministrazione entra in mora accipiendi. In altre parole, non può rinviare “senza scadenza” il collaudo, perché così sposta indebitamente sul costruttore un rischio che, oltre quel limite, diventa suo.

Secondo: l’effetto della mora del committente. Una volta scaduto il termine di collaudo senza che il Comune provveda, il rischio del perimento o del deterioramento dell’opera si trasferisce all’amministrazione (artt. 1207 e 1673 codice civile). La frana - evento esterno e non imputabile alle parti - è avvenuta quando il committente era già in ritardo nel verificare l’opera. Perciò il Comune non può pretendere dall’appaltatore il rifacimento dei tratti danneggiati né il risarcimento per non averli riparati: quel rischio non è più dell’impresa.

La Corte aggiunge un chiarimento utile contro ogni equivoco: anche il ritardo di esecuzione non muta la conclusione. Che l’ATI avesse maturato 238 giorni di penale (già defalcata in contabilità) non cambia il dato causale: «il rispetto dei termini contrattuali non avrebbe impedito il danneggiamento», perché la frana sarebbe comunque sopravvenuta. Dunque, nessun nesso tra il ritardo e l’evento naturale che ha reso non collaudabili alcune opere.

Infine, la Cassazione ribadisce un principio di corretta esecuzione del contratto: l’amministrazione è tenuta ad attivare il collaudo in tempi ragionevoli, secondo buona fede (artt. 1374 e 1375 codice civile). Se non lo fa, non può poi imputare all’impresa le conseguenze di eventi sopravvenuti non a lei riconducibili. La decisione chiude dunque una controversia trentennale.