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15/08/2023 ore 23.00
Cronaca

COSENZA CRIMINALE | Marcello Gigliotti, un fuorilegge in camicia nera

Rapinatore e assassino al servizio di un clan di 'ndrangheta ma anche neofascista in odor di servizi segreti, per cinque anni terrorizzò la città
di Marco Cribari

C’era uno slargo in terra battuta, tra via XXIV maggio e via Isnardi, che fino ai primi anni Ottanta i ragazzi utilizzavano per giocare a pallone. Tra le tante partite, ce n’è una di cui a Cosenza ancora oggi si parla, talmente assurda e inaudita che in molti faticano a crederci. Eppure c’è chi giura che Il 13 febbraio del 1981, su quello spiazzo proprio sotto piazza Kennedy, si affrontino due squadre: quella dei “drogons” e una del Fronte della gioventù. Con quest’ultima gioca un tizio smilzo e con la voce sottile, che dopo aver fatto gol, corre sotto una curva immaginaria di tifosi con il braccio destro alzato e una pistola in pugno. La estrae per l’occasione dai pantaloni. Ed è carica.

Fascista e delinquente

A esultare in quel modo così osceno, come il figlio del figlio di Billy the kid, è Marcello Gigliotti, per metà fascista e per l’altra delinquente, quanto di più vicino a un fuorilegge abbia mai espresso la città di Cosenza. Il suo interesse per la politica matura per gioco, ai tempi della scuola. Come, lo ha ricordato di recente Gianfranco Bruni, compagno d’armi e suo futuro boia. “Andavamo alle manifestazioni che c’erano in città per sfottere i comunisti”. Un passatempo che, a differenza sua, l’amico prenderà molto sul serio. “Era di Avanguardia nazionale, vicino alle posizioni di Stefano Delle Chiaie. Quando parlava di politica gli brillavano gli occhi, si vedeva che era contento” ricorderà in seguito Franco Pino, suo mentore criminale, che con lui condivideva ideali “di estrema destra” applicati però alla malavita. Per l’ex boss resterà solo un vezzo, Gigliotti invece ne farà un vizio. Dai diciotto ai vent’anni, infatti, si divide tra la militanza politica e quella nel clan Pino, cimentandosi anche nell’impresa di unire quei due mondi in apparenza inconciliabili.

L’assalto a Radio Cosenza Centrale

La scintilla scocca sempre nell’81, con l’assalto alla sede di Radio Cosenza Centrale. Gigliotti guida il gruppo che fa irruzione nei locali dell’emittente e dopo aver immobilizzato i presenti, dietro la minaccia delle armi, costringe lo speaker a leggere in diretta un proclama a firma Terza Posizione. Un assaggio di spontaneismo armato che a Cosenza resterà isolato. “Aveva preso gusto all’azione, da allora cercava sempre il gesto eclatante – ricorda a tanti anni di distanza un suo ex camerata – ma noi non potevamo seguirlo, perché alla fine eravamo bravi ragazzi. Poi a un certo punto si mise in testa che i valori della malavita erano gli stessi dei nostri. Diceva che la loro fratellanza, l’onore, erano come il cameratismo. Fu troppo. Cercammo di convincerlo a cambiare idea, ma non voleva saperne. E così lo abbiamo mollato”.

Ascensore per la malavita

Nei successivi cinque anni, diventa una sorta di pericolo pubblico: rapinatore incallito, bombarolo e spietato assassino. Il 23 aprile dell’81 esordisce in grande stile, a soli diciannove anni, attentando alla vita di Carlo Rotundo, allora contabile e Numero due del clan Perna. Si acquatta nell’ombra, in piazza Piccola, e appena il bersaglio esce di casa gli punta contro la sua Browning. Rotundo fa in tempo a salire sulla sua Bmw blindata che regge l’urto dei proiettili. Sopravvivrà, ma quel giorno Gigliotti supera l’esame. Umile Arturi, che lo ha sponsorizzato davanti al boss, sembra averci visto giusto pure stavolta. Nessuno di loro immagina la rogna che si sono portati in casa.

Il Terrore

Da allora, infatti, e per i pochi anni che gli restano da vivere, Gigliotti seminerà il terrore in totale autonomia, senza l’autorizzazione dei suoi capi o, addirittura, contro la loro volontà. Il 18 gennaio del 1982 piazza una bomba davanti alla sede della Squadra Mobile di via Guido Dorso. La politica, però, non c’entra, è solo un fatto personale contro un poliziotto che il giorno prima gli ha rifilato un ceffone. Solo per una fortunata combinazione, all’esplosione non fa seguito una strage. A quel punto, lo conoscono tutti. E lo temono a giusta ragione. Anche un dritto come Antonio Paese, una sera in via Panebianco, trova il “suo” parcheggio occupato da una Fiat Panda e così si avvicina all’utilitaria per dire al guidatore di sloggiare. Nell’abitacolo, però, c’è lui, Gigliotti, intento a conversare con il suo amico Luigi Tripodi. A quell’atto di prepotenza, reagisce nel modo a lui più congeniale: mostra il ferro e promette pure di usarlo. Paese lo guarda negli occhi, capisce che non scherza. E va a parcheggiare altrove.

Il vizio di uccidere

Per la vita umana non ha alcun rispetto. L’11 maggio del 1985 uccide un suo coetaneo Francesco Salerni, reo di essere stato fidanzato con la sua attuale donna. Lo porta in Sila e lo giustizia a colpi di pistola. Il suo corpo, eccezion fatta per il teschio, non sarà più ritrovato. Coinvolge nell’omicidio anche il giovane Francesco Lenti, all’epoca ancora minorenne, con il quale formerà una coppia criminale indissolubile, nella vita come nella morte. Quattro mesi dopo aver ucciso Salerni, il duo si supera in negativo. Sergio Palmieri è un impiegato comunale con l’hobby della ricettazione di gioielli rubati. Gigliotti è un suo cliente e poche settimane prima gli confida che presto gli porterà dell’oro da monetizzare, ma nell’imminenza del colpo, lui e Lenti vengono arrestati dai carabinieri. I due ritengono di essere stati traditi, che qualcuno abbia fatto la spia. A Gigliotti basta questo sospetto, quasi certamente infondato, per puntare Palmieri. Quel giorno di novembre, passa per caso da piazza Kennedy e lo vede mentre se ne sta in un portone, a ripararsi dalla pioggia insieme ad alcuni amici. Non ci pensa due volte. Si avvicina a lui, a volto scoperto, e gli piazza una pallottola in testa davanti a decine di testimoni. Poi sia allontana come se nulla fosse.

Tranquillo, bambino

La sua specialità però sono le rapine. Ovviamente a mano armata. La più drammatica la mette a segno il 7 gennaio del 1986, senza sapere che sarà l’ultima della sua breve e tormentata esistenza. Sono le sette di sera e a Castrolibero, nella villa di un notabile del posto, ci sono il figlio del padrone di casa, sette anni di età, e la sua tata di diciannove. “C’è una lettera per il dottore” dice una voce al citofono, ma la ragazza non si fida e non apre. Anzi, ha un presentimento e corre verso la porta per chiuderla a chiave, ma proprio in quel momento fanno irruzione tre uomini, con calze di nylon in testa e guanti da cucina sulle mani. Immobilizzano la tata, puntano la pistola in testa al ragazzino e si fanno indicare il posto in cui sono custodite pellicce e altri oggetti di valore. Resta da aprire la cassaforte, perciò imbavagliano pure il bambino e attendono con pazienza il ritorno dei suoi genitori. La prima a rincasare è la madre, minacciano anche lei con le armi e ottengono la combinazione per arraffare ori e contanti. Andranno via con un bottino da 150 milioni di lire, non prima però di aver rassicurato la giovane vittima del colpo: “Tranquillo bimbo – gli dice Gigliotti – stavamo solo scherzando”. Poi va via insieme ai suoi complici, tra cui il fido Lenti. Coperti dal buio e dall’impunità.

L’uomo dei servizi segreti

Riesce sempre a farla franca. E’ un bandito fortunato, ma forse c’è qualcosa in più. Capo della Squadra Mobile di Cosenza, all’epoca, era Nicola Calipari, futuro 007 ucciso in Iraq nel 2005. Durante la sua permanenza in Calabria, a detta del pentito Nicola Notargiacomo, aveva imbottito i clan locali di spie. “Si diceva che anche Gigliotti fosse un suo informatore” aggiunge Franco Pino, mentre Gianfranco Ruà, un altro dei suoi assassini reo confessi, dice la stessa cosa in termini più suggestivi: “Pare che [Calipari] gli avesse dato un tesserino dei servizi segreti”. Si corre sul filo dei “si dice”, ma di verificabile c’è davvero poco. Le uniche certezze le offrono i documenti ormai datati della Questura. Le indagini sulla scomparsa di Salerni girano a vuoto per circa un anno. Il nome di Gigliotti, in qualità di sospettato, compare solo in uno dei primi rapporti, ma l’indizio è rappresentato da un pettegolezzo, “poi più nulla emerge sul suo conto”. L’interesse investigativo si concentrerà sui familiari dello scomparso nel convincimento, rivelatosi poi infondato, che nascondessero chissà quale segreto. Riguardo a Palmieri, invece, a indicare il vero autore del suo omicidio saranno i collaboratori di giustizia, ma solo a partire dal 1995, quando ormai per quel crimine era stato già incastrato l’innocente Francesco Masala.

Il figlio di Billy the kid

Non sarà la legge a fermarlo, ma i suoi stessi compagni di nefandezze. La rapina in villa è la goccia che fa traboccare il vaso e non solo perché, come al solito, Gigliotti tiene per sé l’intero bottino senza pensare agli interessi del suo clan. A prendere il sopravvento, piuttosto, è l’insofferenza verso quel cane sciolto che “uccide le persone senza motivo” e “punta le pistole in testa ai bambini”. Le circostanze orribili della sua fine (e di quella di Lenti) sono oggetto di un processo che, a tanti anni di distanza, non ha ancora distribuito, al di là di ogni ragionevole dubbio, i ruoli di mandanti ed esecutori materiali del loro duplice omicidio. L’ultimo scatto è datato 13 febbraio 1986, undici giorni dopo la sua scomparsa. Marcello Gigliotti è immerso nella neve con gli occhi sbarrati, la testa reclinata di lato e le braccia sollevate. Non sta esultando per un gol: il figlio del figlio di Billy the kid è morto.