Cosenza, il caso Rina Pennetti: un mistero lungo quattordici anni
Dov’è Rina Pennetti? Un interrogativo che non smette di tormentare i suoi familiari, ma che continua a essere orfano di risposte. Figlia di un noto imprenditore di Spezzano della Sila, la mattina del 6 ottobre 2009 esce di casa in compagnia dell’amico Fabio e da quel momento di lei si perde ogni traccia. Gli investigatori l’hanno cercata in lungo e in largo, sulla rotta di ben due continenti, ma senza riuscire a far luce sulla sua sparizione.
Gli avvistamenti registrati nel corso degli anni, seppur numerosi si sono rivelati sempre fallaci. E a nulla è valsa anche la lugubre comparazione del suo dna con quello dei cadaveri senza nome rinvenuti qua e là in giro per l’Italia. Una pratica avviata già nel 2010 dopo il rinvenimento a Roma del corpo di una donna orribilmente mutilato e poi ripetuta spesso in questi anni.
L’ultima è di poche settimane fa, favorita dal ritrovamento di resti umani a Zumpano. Anche stavolta, però, niente da fare: gli accertamenti, disposti dalla Procura di Cosenza, hanno stabilito che si tratta di ossa risalenti al XIX secolo. Il mistero di Rina, dunque, resta insoluto. E oggi compie quattordici anni.
L’ultimo giorno
Di anni Rina Pennetti ne avrebbe oggi 47, ma la percezione che si ha di lei è ferma a quando ne aveva ancora 33. Madre di due figli piccoli, Rina è bionda e bella; di una bellezza “maledetta”, retaggio di sofferenze fisiche e sentimentali che in precedenza l’hanno spinta tra le braccia della droga. Ne esce dopo un periodo di disintossicazione in clinica, ma quel giorno d’ottobre del 2009, quando salta in auto con Fabio diretta con lui a Rende, è sotto cura di farmaci antidepressivi. È il prologo alla sua futura invisibilità.
I due fanno tappa in un centro estetico, Rina scende un attimo mentre l’amico rimane in auto. Poco dopo i ruoli s’invertono: è l’uomo che entra in un negozio lasciando lei in attesa, ma al suo ritorno, pochi minuti dopo, la passeggera non c’è più. In seguito, una parrucchiera della zona afferma di averla vista affacciarsi all’ingresso del suo salone per biascicare parole senza senso e andare via. La sua borsa sarà poi trovata per strada, a un centinaio di metri da lì, con il cellulare e i documenti sparsi sull’asfalto.
Allontanamento volontario?
Dopo la denuncia sporta dai familiari, partono le ricerche, inizialmente con poca convinzione. Emerge, infatti, che non è la prima volta che Rina si rende “uccel di bosco”, che in passato è resa protagonista di brevi sparizioni per poi riapparire dopo qualche giorno. Sono questi precedenti a orientare gli investigatori verso una pista dell’allontanamento volontario. E a convincerli del tutto, ci pensa poi un evento che si verifica alcune settimane dopo. Salta fuori una testimone, una donna che conosce Rina perché in passato ha frequentato casa Pennetti per assistere la mamma inferma. Riferisce di aver parlato con lei a Paola, durante una fiera e che era in compagnia di un misterioso amico. Per la Procura è la prova decisiva: la donna sta bene e dietro la sua scomparsa non si cela alcun mistero.
«No, è stata rapita»
Il caso, dunque, finisce in soffitta, ma i familiari non si rassegnano e sulla scena irrompe il compianto criminologo Francesco Bruno. Proprio lui, appronta un dossier in cui sostiene la tesi «dell’avvenimento criminoso» di cui Rina Pennetti sarebbe stata vittima. Bruno ritiene che il suo sia stato «un rapimento a scopo estorsivo o per vicende legate alla droga» e sulla scorta dei suoi sospetti, le indagini ripartono. C’è un pensiero che più altri assilla Albanascente Pennetti, la sorella della scomparsa: Rina non avrebbe mai abbandonato i suoi figli e men che meno l’adorato papà del quale si prendeva cura in modo maniacale. No, deve esserle accaduto per forza qualcosa di brutto.
La pista svizzera e quella somala
Le ricerche ripartono a 360 gradi, stavolta con più determinazione. Alcuni numeri estratti dalla rubrica del telefonino, suggeriscono di puntare in direzione della Svizzera. È lì peraltro che la donna è stata ricoverata per liberarsi dai fantasmi della droga. Si mobilitano anche le autorità elvetiche, ma senza risultato. Un’altra traccia porta in Africa. La sua sim card registra una telefonata in entrata dalla Somalia quasi coeva alla sparizione. I familiari compongono quel numero, ma a rispondere è un uomo che nega di aver fatto quella chiamata. Anche quella pista e un’altra che in seguito orienta le ricerche negli Emirati Arabi, finiscono in un vicolo cieco.
L’avviso
Passano gli anni e due sono già tanti. L’effige di Rina campeggia spesso in tv in qualità di persona scomparsa e nel 2011 le speranze di ritrovarla sana e salva si accendono all’improvviso. Una coppia di coniugi si dice certa di averla vista a Milano, davanti a un supermarket. Sembra fatta, ma dietro l’angolo c’è l’ennesima delusione: è solo una commessa del negozio che le somiglia tanto. Un’altra segnalazione arriva dal Veneto, sempre con motto di certezza. Rosmary Laboragine afferma di averla vista in un ristorante di Padova, ma nel momento della verità viene fuori che si trattava di un’altra donna. A quel punto i riconoscimenti de visu non bastano più. Si procede per divinazione.
La deriva paranormale
È il capitolo più doloroso del racconto. L’ingresso in scena dei sensitivi rappresenta, infatti, la mossa della disperazione. Proprio Laboragine – quella dell’avvistamento in trattoria – la “vede” in un appartamento di Abano Terme, in compagnia di un uomo distinto. «Non la tratta male – spiega – ma lei non è libera. È prigioniera». In precedenza aveva acquisito notorietà mediatica per essersi espressa sui casi del piccolo Tommaso “Tommy” Onofri e di Sarah Scazzi. «Sono disponibile a collaborare con gli inquirenti» afferma in quei giorni la medium, ma non se ne farà nulla. Il romano Mario Alocchi è invece un esperto in radioestesia: rintraccia oggetti o persone per il tramite di talismani e amuleti. Anche lui, all’epoca, è diventato celebre grazie al giallo di Avetrana e nel 2010 dice la sua sul caso di Rina. Agita il pendolino su una foto della donna di Spezzano e poi vaticina: «E’ morta».
Quel che rimane, 14 anni dopo
Sono passati quattordici anni e ogni tentativo di riportare Rina a casa è naufragato miseramente. Anche certificare la sua morte al di là di ogni ragionevole dubbio non è riuscito a chiunque si sia cimentato nell’impresa in questi anni: familiari, carabinieri, amici e per ultimo i maghi. Nel dedalo di piste inconcludenti e riconoscimenti temerari, però, solo uno degli atti d’indagine pare aver resistito all’incedere del tempo senza incappare in smentite significative: l’avvistamento paolano, operato da una donna che la conosce e che, addirittura, afferma di aver conversato con lei. A patto che non si tratti una storia completamente inventata – il livello di mitomania sarebbe quasi patologico – è da lì che un’eventuale nuova indagine dovrebbe ripartire per far luce sul caso della ragazza scomparsa a Rende il 6 ottobre del 2009. Si chiamava e si chiama ancora Rina Pennetti. Quel giorno è come se fosse salita su un treno invisibile. Ne parte almeno uno al giorno di treni così. E dove arriva, se parte, nessuno lo sa.