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21/10/2023 ore 20.43
Cronaca

Cosenza, storie di amicizia e tradimenti all'ombra della 'ndrangheta

Vittime consegnate al boia proprio dalle persone di cui si fidavano di più, negli ultimi quarant'anni sono tantissimi gli omicidi commessi con tali modalità
di Marco Cribari

Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io. Un adagio antico che quando si parla di ‘ndrangheta, però, vale solo a metà. Se si finisce nel mirino degli “amici”, infatti, anche un aiuto dall’Alto serve a poco. In tal senso, l’uccisione di Salvatore Di Cicco – l’ultima in ordine di tempo su cui la Dda ritiene di aver fatto luce – non rappresenta un caso isolato. La storia della criminalità cosentina, infatti, è costellata da epurazioni interne di persone che, a un certo punto della loro vita, diventano inaffidabili agli occhi dei loro compagni di malefatte. A quel punto si è spacciati. E nove su dieci, a consegnarti al boia è proprio la persona di cui più ti fidi. L’amico infedele.

La madre di tutti i tradimenti, a Cosenza e dintorni, è forse l’omicidio di Luca Bruni datato 3 gennaio 2012. In quel caso, a far scattare la trappola tocca ai suoi fidatissimi Adolfo Foggetti e Daniele Lamanna. Sulla carta, devono scortarlo a un summit di mafia con gli allora latitanti Ettore Lanzino e Franco Presta, in realtà lo portano in una macchia di campagna tra Rende e Castrolibero che diventerà il luogo della sua esecuzione.  In seguito, diventeranno entrambi collaboratori di giustizia, con Lamanna che rievocherà i tormenti da lui vissuti nelle ore precedenti all’agguato. Quel giorno, tocca a lui premere il grilletto che spezza la vita dell’amico del cuore. Oltre a loro, sul posto, ci sono altri membri dell’organizzazione, pronti a entrare in azione nel caso in cui qualcosa vada storto. Lamanna confesserà di aver avuto per un attimo la tentazione di ribaltare il fronte, salvando così la vita a Bruni oppure cadendo insieme a lui in una catarsi di sangue e piombo.  Alla fine, si limiterà a eseguire il suo lugubre incarico.

Molti anni prima, analogo destino era toccato ad Aldo Curcio. È il 1978, Luigi Palermo “U zorro” è stato appena trucidato e dal suo sangue nascono i due gruppi che nel decennio successivo tenteranno di annientarsi l’un con l’altro a suon di attentati. Curcio, insieme a suo fratello Santo, rappresenta uno dei vertici del clan Pino-Sena. E’ lui che battezza Franco Pino secondo il rito di ‘ndrangheta, ma il suo carisma è mal tollerato dagli altri gerarchi della banda. E così, i due vengono attirati in Sila con l’inganno. Aldo sarà ucciso e il suo corpo non sarà mai più ritrovato, mentre l’altro riesce a fuggire e, nonostante le ferite e l’auto crivellata di proiettili riesce a raggiungere l’ospedale con l’aiuto di un passante. Una volta guarito, si chiamerà fuori dalla lotta criminale. In seguito, l’ex boss Franco Pino attribuirà la responsabilità della morte di suo fratello al collega Sena, ricordando come proprio quest’ultimo, dopo la scomparsa di Aldo Curcio, perdette buona parte del suo prestigio all’interno dell’organizzazione.

Sull’altra sponda criminale della città, invece, il primo agosto del 1980 si consuma il destino di Armando Bevacqua detto “Il biondo”.  Figliastro di Palermo, capo degli zingari locali e alleato del clan Perna nella guerra contro i Pino-Sena, trascorre gli ultimi due anni della sua esistenza a caccia degli assassini di suo padre, ma poi cade in un vortice di lusinghe, inganni e doppiogiochismi che finisce per annientarlo. Perna lo considera quasi un fratello, ma arriva al punto di perdere del tutto la fiducia in lui. E così, quel giorno di agosto lo convoca a casa sua a Castrolibero per un chiarimento. Il biondo è tranquillo perché ha un uomo fidatissimo, Francesco Saverio Vitelli, che sta sempre al fianco di Franchino. Se qualcosa va storto, pensa, mi avviserà per tempo. Si sbaglia. Anche Vitelli ha deciso di sacrificarlo, ma quando se ne accorge è ormai troppo tardi. «Io ti ho creato e io ti distruggo». Sono le parole che Perna pronuncia un attimo prima di fare fuoco, dopo aver puntato la pistola sul cuore dell’Armando.

Ritirare un carico di droga, andare ad acquistare delle armi, eseguire il sopralluogo per una rapina, consumare un pasto in allegria. Gira e volta, i pretesti utilizzati per attirare in trappola la vittima designata, per indurlo a salire in auto insieme al suo futuro carnefice, sono sempre gli stessi. Ed è un metodo che non risente delle ingiurie del tempo: funziona sempre, oggi come quarant’anni fa. Ne sanno qualcosa, purtroppo per loro, Nelso Basile, Michele Lorenzo, Marcello Gigliotti e Francesco Lenti, Demetrio Amendola, i “civili” Antonio Zupi e Francesco Salerni. E così tanti altri ancora, tutti accomunati dalla malasorte, nella vita come nei tribunali: quasi tutti questi crimini, infatti, sono rimasti impuniti.   

L’elenco si chiude idealmente con la triste storia di Primiano Chiarello. All’alba del nuovo millennio è un solo giovane rapinatore cosentino che orbita nel clan “Bella bella”. Ricercato dalla polizia, si butta latitante trovando ospitalità a Cassano grazie ai buoni uffici del suo amico Franco Bevilacqua. Ignora però che quel gruppo criminale sta per scendere in guerra contro i suoi capi. E così da ospite diventa prigioniero. Anche se lui ancora non lo sa. Il suo ultimo giorno di vita scorre in modo apparentemente tranquillo. Prima al pub e poi un salto in un’autorimessa della zona perché l’uomo che è con lui deve sbrigare una commissione. Appena mette piede nel capannone, viene falciato da una raffica di mitraglietta. Diventa ufficialmente la prima vittima della Terza guerra di mafia a Cosenza. Il corpo, fatto a pezzi e gettato in un fiume, non sarà mai più ritrovato.

Dai nemici mi salvi Iddio, che con gli amici invece non c’è scampo. Prima o poi bisognerà aggiornare la vecchia regola. Nell’ambiente sordido e irredimibile della malavita, sarà sempre il “Tessio” di turno a rivestire un ruolo di primo piano. A Cosenza come altrove. Triste sì, ma niente di personale. È solo bisniss.