Estorsioni e ’ndrangheta nella Sibaritide, Abbruzzese colpevoli «al di là di ogni pregiudizio»
Le motivazioni della sentenza che lo scorso luglio ha sancito la condanna di quarantasei persone per associazione mafiosa e narcotraffico nonché per le vessazioni inflitte agli imprenditori ortofrutticoli della zona
Al di là di ogni ragionevole dubbio, ma anche «di ogni pregiudizio». Tra il 2018 e il 2021, così come negli anni precedenti, gli imprenditori ortofrutticoli della Sibaritide sono stati pesantemente vessati da un clan di ‘ndrangheta: quello degli Abbruzzese. È questo, in estrema sintesi, ciò che la Dda di Catanzaro si proponeva di dimostrare; ed è proprio questo che il processo “Athena” ha finito per dimostrare. A quaranta giorni dalla pronuncia della sentenza di primo grado sono state rese note le motivazioni di quel verdetto che, oltre a dodici assoluzioni, ha sancito quarantasei condanne per associazione mafiosa, narcotraffico ed estorsioni.
Il giudice estensore, Gilda Danila Romano, ha voluto scriverlo a chiare lettere: il cognome degli imputati, evocativo dal punto di vista criminale, non ha influito in alcun modo sul giudizio finale. L’epilogo giudiziario, semmai, è frutto di «indagini in presa diretta che hanno permesso di sentire cosa veniva detto, cosa veniva fatto, chi incontrava chi e dove, i commenti offerti inconsapevolmente agli investigatori che stavano ascoltando o guardando gli imputati». Gli imputati, ribadisce il gup Romano, «chiunque essi fossero».
La pistola fumante è rappresentata dai quintali e quintali di frutta che, per anni, gli imprenditori vittime di estorsioni, hanno dovuto consegnare loro malgrado agli esponenti della cosca. La merce, acquisita gratuitamente, veniva dirottata «presso l’azienda dove loro si comportavano da padroni, la Agrigarda dei fratelli Laino» e poi reimmessa sul mercato, garantendo così all’organizzazione criminale un profitto rotondo e senza spese.
Tutto ciò, è scritto in sentenza, è stato accertato «non perché le persone accusate erano degli Abbruzzese», bensì in virtù di pedinamenti, osservazioni, dichiarazioni di parti offese e, soprattutto, intercettazioni ritenute schiaccianti.
Secondo il giudice, l’incrocio di tali attività d’indagine ha dimostrato che le richieste avanzate dal clan agli imprenditori, seppur non accompagnate da minacce, rappresentassero «pretese impossibili da non accontentare», una forma di pressione senza margini di trattative a cui la giurisprudenza attribuisce un nome specifico: estorsioni ambientali.
Di questo, e non di altro, si parla «non perché i precedenti esponenti di questa famiglia erano stati giudicati e condannati per reati simili, ma perché è questo che alle date di riferimento gli imputati stanno praticando: chiedono e quindi per loro stanno già pagando tutti quei quintali di frutta che gli imprenditori della zona davano loro».
E non importa che alcuni di loro abbiano emesso fatture, o che, diversi imprenditori, per fronteggiare la perdita, si siano permessi di nascondere fra le pesche consegnate al clan, parti di raccolto di minore qualità. Dopo aver prelevato la frutta meno buona, infatti, gli Abbruzzese si premuravano «di ottenere le pesche lisce, più pregiate rispetto a quelle con la barbetta e quindi capaci di fruttare di più, senza contare che non pagandole a monte tutto il guadagno sarebbe stato già di per sé ricavo».
Un modo di agire attuato nei confronti di più imprenditori della zona secondo uno schema «collaudato, continuo, costante ed evidentemente prolifico», che rimanda dunque alla cosiddetta estorsione ambientale.