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25/02/2025 ore 09.02
Cronaca

L'intervista | Il procuratore di Catanzaro Curcio: «Le mafie si nutrono del disinteresse della gente»

Umanità, legalità e senso di comunità al centro del primo intervento pubblico del magistrato.
di Alessia Truzzolillo

Di recente il neo procuratore di Catanzaro Salvatore Curcio ha detto: «Noi non trattiamo numeri, non trattiamo fascicoli, noi trattiamo persone». E questo aspetto traspare, più di ogni altra cosa, nel corso della lunga e intensa intervista che il magistrato ha concesso a LaC News24, la prima dal suo insediamento.

Non dimentica, Salvatore Curcio, i particolari più umani della tragica vicenda del piccolo Domenico Gabriele, detto Dodò, che il giorno prima di morire era andato dal barbiere perché doveva andare a un matrimonio. O il piccolo Anàs Zouabi che, prima di partire per attraversare il Mediterraneo, aveva indossato la tutina “magica” di Batman. O, anche, quei ragazzi che a stento riuscivano a leggere le poche righe della formula di rito perché cresciuti in contesti di disagio sociale e ignoranza. O il broker del narcotraffico che si ostinava a rendere, a Bogotà, l’interrogatorio in dialetto calabrese. Particolari. Tanti. Quelli della carriera di un uomo che non ha trattato numeri ma persone. E che oggi dice: «Tutto ciò che accade nella nostra comunità è un problema che ci riguarda».

Procuratore Curcio, qual è l’aspetto che più la preoccupa nell’affrontare la sfida di guidare un Ufficio come quello di Catanzaro e qual è quello che più la rende felice?
«Rientro a Catanzaro dopo avervi trascorso la gran parte della mia carriera e un periodo di otto anni alla Procura di Lamezia. Personalmente ritengo che sia il giusto e logico completamento di un percorso professionale iniziato tanto tempo fa e che mi ha visto impegnato, fin da giovane magistrato, nella trattazione di procedimenti penali di criminalità organizzata. Avrò la fortuna – ma al tempo stesso la grande responsabilità – di dirigere un ufficio che ha un modello organizzativo che gli consente di operare efficacemente prescindendo dalle persone e dalle contingenze del momento e ciò rappresenta un indubbio valore aggiunto».

Dal 2016 ha guidato la Procura di Lamezia Terme, che situazione ha trovato e cosa lascia?
«I primi anni alla Procura di Lamezia sono stati complicati: la scarsità delle risorse, delle unità lavorative del personale amministrativo (per un periodo presente in 11 persone su 23), la riduzione della pianta organica dei magistrati da cinque a quattro sostituti procuratore, una scopertura di quest’ultimo organico arrivata anche al 50%. A ciò si aggiunga la necessità di far fronte alle esigenze di informatizzazione del processo penale ed all’avvio della necessaria progettualità, e alla crisi pandemica da Covid 19: insomma non è stata per tutti noi, magistrati e personale amministrativo, quel che si dice una passeggiata.

Il risultato che, più di ogni altro, mi riempie di soddisfazione è quello di essere riuscito a trasmettere quello spirito di appartenenza che ci ha consentito non solo di superare difficoltà enormi per le forze in campo, ma di raggiungere obiettivi concreti, migliorando la qualità dei servizi e delle attività. E tale traguardo è stato riconosciuto ampiamente dagli esiti delle attività ispettive ordinarie disposte dal ministero della Giustizia: la sintesi sull’andamento generale della Procura della Repubblica della relazione ispettiva del ministero della Giustizia conclude evidenziando come: “Dall’analisi complessiva svolta si rileva come l’Ufficio di Procura sia dotato di un’efficiente organizzazione, che ha consentito di raggiungere significativi standard di produttività e di offrire un credibile servizio della giustizia… a fronte di coperture di organico non sempre adeguate al bacino di utenza…”».

Al di fuori dagli aspetti lavorativi, quale pensiero dedica alla città che ha imparato a conoscere negli ultimi otto anni?
«Ho avuto modo di esternare i miei sentimenti di gratitudine a colleghi, personale amministrativo e alla città, in occasione del saluto agli Uffici giudiziari, non posso che ribadire le cose che ho già detto. Mi è stato chiesto più volte, in questo periodo, cosa porterò con me di Lamezia Terme: in molti attendevano – e magari anche oggi si aspettano – una risposta che celebri i risultati investigativi ottenuti (in ipotesi, gli accertamenti giudiziali definitivi di responsabilità penale di tutti gli omicidi di questi otto anni, quanto si è fatto in materia ambientale e di sfruttamento del lavoro). Non è questo.

Di Lamezia Terme porterò con me la gente, i ragazzi, le persone con cui ho percorso questo lungo viaggio nel tempo: e vi assicuro che non è poco, anzi rappresenta per me una vera ricchezza. Ho avuto la fortuna di condividere umanamente le vite di tante persone: le ansie di ognuno, le preoccupazioni, le tensioni e le difficoltà, le gioie ma anche i dolori.

Mi accompagneranno i volti carichi di speranze e di aspettative dei giovani magistrati e dei giovani avvocati; mi accompagnerà lo sguardo stanco dei tanti operatori di polizia giudiziaria impegnati, giorno e notte, nell’effettuazione di rilievi ed accertamenti defaticanti per gravissimi fatti di sangue; mi accompagnerà la “straordinaria ordinarietà” che contrassegna le giornate – sempre uguali – del personale amministrativo, da cui pretendiamo sempre il massimo; mi accompagnerà, con angoscia, la sete di Giustizia dei familiari delle vittime di ‘ndrangheta alla ricerca, ancora oggi, almeno di un “perché” che possa lenire il loro immenso dolore.

Porto con me la gente di Lamezia Terme: i ragazzi dell’Estate Ragazzi di don Fabio, dal più piccolo agli animatori più grandi, e l’incontro con loro per il consueto Buongiorno estivo, l’ascolto e la riflessione comune; porto con me i volontari e i ragazzi dell’associazione Trame e il loro bellissimo Festival che contribuisce – e non poco – ad alimentare la coscienza e la conoscenza di una barbarie come le mafie. Alle tante associazioni di volontariato presenti sul territorio, dico: grazie. Un augurio ed un in bocca al lupo particolare alla Progetto Sud chiamata ad occuparsi – finalmente, dopo 60 anni – della ricollocazione dei residenti di Scordovillo quale soggetto terzo attuatore di un progetto concreto che finalmente è andato in porto, grazie all’apporto di tutti, anche dell’ufficio di Procura. Un grazie al Comune di Lamezia Terme ed alla sua amministrazione che, in uno con la Regione Calabria, il ministero dell’Interno e quello dell’Ambiente, restituiranno a tanta gente la “dignità del vivere” ed alla città un territorio dimenticato».

Lei è stato pm a Catanzaro dal 1993 al 2012, ha guidato inchieste importanti contro la ‘ndrangheta, soprattutto quella della Sibaritide, ma ha anche vissuto momenti difficili. Cosa ricorda di quegli anni? Qual è l’impronta che hanno lasciato su di lei?
«Tutto! È stata ed è la mia vita: praticamente mi sta chiedendo di raccontargliela… e in brevi battute mi sembra un’operazione impossibile. Posso sintetizzare – e forse neanche al meglio – ciò che ho imparato in tutti questi anni di processi di criminalità organizzata. L’azione penale complessivamente intesa, per intenderci gli arresti, i processi, le condanne, non rappresenterà mai la soluzione al “problema” criminalità mafiosa. Vede, la società calabrese e quella meridionale in genere ha fatto – e continua a fare – dei grandi regali all’”onorata società”. Un primo “regalo” è quello di avere colposamente ritenuto – e da sempre – che il sistema di contrasto alle mafie fosse esclusivamente demandato a magistrati e Forze di polizia e che i cittadini fossero degli “spettatori”, al più interessati. In realtà, le mafie e l’illegalità si sono nutrite da sempre – e si nutrono – soprattutto dei nostri silenzi, delle nostre indifferenze, del nostro disimpegno, delle nostre equivocità.

Le nostre comunità, innanzitutto, sono chiamate, con forza, a ″riappropriarsi″ dello status di cittadini, dismettendo i panni dei sudditi che per troppo tempo abbiamo indossato, rifuggendo da quell’atteggiamento ammorbante di incomprensibile ″terzietà″ nei confronti dello Stato, dimenticando, sovente, che lo Stato siamo noi, che non ci può essere comunità senza senso di appartenenza, senza il rispetto delle regole minimali di convivenza civile. È quello che io ritengo tradursi in un vero e proprio “processo di astrazione mentale”. L’approccio dei consociati, di una comunità ai fatti di ‘ndrangheta è stato, è, nella stragrande maggioranza delle esperienze di vita di ogni giorno, di rassegnata “assuefazione” ai fatti criminali, anche i più efferati.

È la cosiddetta contro-cultura dell’”oramai”, l’alibi di noi meridionali al nostro evidente disimpegno sociale.
Tale empirica constatazione desta grande preoccupazione, nella misura in cui rappresenta, appunto, l’effetto di un pericoloso procedimento di “astrazione mentale” dei cittadini, non solo (e non tanto) rispetto all’evento di cronaca, quanto, piuttosto, – ed è ciò che suscita maggiore allarme – rispetto alla vita della comunità stessa, allo Stato.