Sibari: la protesta di una viaggiatrice accende i riflettori sul disastro delle infrastrutture in Calabria
Una lettera di denuncia racconta l’odissea quotidiana per salire o scendere dal Frecciarossa nella stazione di Sibari. Tra marciapiedi inadeguati, dislivelli pericolosi e silenzi istituzionali, il Sud resta indietro
«Vergogna!». Non è un’esagerazione né una parola buttata lì con leggerezza. È il grido - lucido e rabbioso - che una viaggiatrice ha scelto sui social per denunciare una situazione che, nel 2025, dovrebbe essere impensabile in un Paese che si definisce moderno: il dislivello tra i treni ad Alta Velocità e il marciapiede della stazione di Sibari, nel cuore della Calabria ionica.
Scendere da un treno AV, altrove, è un gesto automatico. A Sibari è una sfida fisica. Pericolosa. Umiliante. Soprattutto per chi è anziano, ha bambini, è carico di valigie o ha una disabilità. E mentre il resto d’Italia corre – letteralmente – sui binari dell’Alta Velocità, qui ci si inginocchia. Nel senso letterale del termine.
Una scena che si ripete ogni giorno
La testimonianza, circolata nelle scorse ore sui social e su gruppi locali, non lascia spazio a dubbi. Il binario 1 della stazione di Sibari – l’unico da cui parte e arriva il tanto decantato Frecciarossa per Milano – ha un marciapiede troppo basso. Troppo rispetto alla porta del treno. Chi scende deve fare un salto. O usare uno sgabello. O inginocchiarsi.
«Si vedono anziani che si inginocchiano pur di scendere incolumi – scrive la viaggiatrice – donne con sgabelli pieghevoli, giovani che saltano giù invece di compiere i passi giusti. Le valigie? Cadono sul marciapiede, come la mia. Saltare con un peso è impensabile».
Una scena surreale, degna di un Paese con infrastrutture da dopoguerra. Eppure, siamo nel 2025. E ci troviamo nel cuore di una regione che da anni lotta per rompere l’isolamento, chiedendo collegamenti dignitosi e una rete ferroviaria all’altezza.
La beffa dei numeri (e della propaganda)
La viaggiatrice non fa sconti alla retorica istituzionale. Non si lascia incantare dal mantra del “Frecciarossa che collega il Sud al resto del mondo”. Anzi, punta il dito proprio contro chi si compiace dell’esistenza di un solo treno AV al giorno da Sibari, come fosse un miracolo. «Nella stazione di Torino Porta Nuova, sul display, ho contato 4 Frecciarossa in partenza per Napoli in un’ora. Non in una giornata. Quattro».
A Sibari, invece, uno solo. E con ostacoli. Ma guai a lamentarsi, sembra dire il sottotesto della comunicazione ufficiale. «Abbiate gratitudine», ripetono alcuni politici locali, mentre dimenticano che garantire infrastrutture adeguate non è un favore: è un dovere costituzionale.
La promessa (incompleta) dell’elettrificazione
Nel frattempo, si annunciano lavori. Si parla di elettrificazione della linea ionica, una battaglia attesa da decenni. Ma anche qui la viaggiatrice protesta: «A cosa servirà, se non c’è il doppio binario?». E non ha torto. Perché senza doppio binario, la velocità reale sarà sempre limitata: si dovrà aspettare che l’altro treno liberi la tratta, rendendo tutto più lento e incerto.
Sembra un’eterna corsa a metà. Una terra che parte sempre, ma non arriva mai. Che conquista promesse, ma non risultati. E così, anche l’Alta Velocità finisce per essere un’illusione. O peggio: una vetrina politica priva di fondamenta reali.
Cristo si è fermato a… Sibari
A denunciare questa situazione non è un politico, non è un’associazione di categoria, non è un sindacato. È una semplice cittadina. Ma con parole che pesano come pietre: «Se solo ci fermiamo a riflettere sul livello delle infrastrutture nella Calabria ionica, non possiamo non dare ragione a Carlo Levi e al suo libro: Cristo si è fermato a Eboli».
L’amara constatazione è che, ottant’anni dopo quel titolo, la realtà è cambiata poco. O nulla. E chi prova a dirlo ad alta voce, viene spesso ignorato. O tacciato di disfattismo.
I mali strutturali (e culturali)
La lettera si trasforma, nel finale, in un atto d’accusa più profondo. Contro una mentalità rassegnata. Contro un popolo che spesso preferisce tacere, adattarsi, arrangiarsi. Magari con uno sgabello portato da casa. «Ci manca la capacità di indignarci. La fierezza di affermare i nostri diritti. Il senso civico che ci faccia capire che non basta aggiustare l’orticello personale per vivere bene».
Un’autocritica dura, ma necessaria. Perché, come scrive la viaggiatrice, la Calabria ha tutto: bellezze naturali, storia, cultura, talenti. Quello che manca, troppo spesso, è l’orgoglio di essere calabresi. E la consapevolezza che solo uniti, arrabbiati e determinati, si possono cambiare le cose.