La lettera | La rivoluzione sta sempre nascendo: il ricordo di Franco Piperno
Tre aspetti della vicenda politica e umana di Franco Piperno (1943-2025) sono insistentemente tornati a galla nel suo ricordo pubblico: la militanza nell’operaismo prima e nell’autonomia poi, il profilo scientifico di fisico e osservatore astronomico, la stagione da assessore in una fase ben precisa di storia delle autonomie locali a Cosenza e in Italia. Confesso piuttosto sinceramente che non ho alcuno strumento, né anagrafico né esperienziale, per valutare queste tre fasi: ho conosciuto la prima autonomia solo dalla cronaca postuma; non mi intendo di astrofisica; non avevo nemmeno l’elettorato attivo al tempo dell’esperienza amministrativa di Piperno (e altre figure esterne al gioco partitico che ebbero un ruolo e un immaginario nelle sindacature di Giacomo Mancini).
Ho potuto conoscere, però, l’ultima parte della parabola di Piperno, che contiene senza soluzione di continuità elementi, temi e persino pose delle prime tre, e che ha spunti interessanti proprio perché è quella che è emersa con minore intensità nelle rivisitazioni e rievocazioni. La ho vissuta anche in alcune chiacchierate, ubicate in una sorta di triangolo d’oltre Campagnano, che comprendeva un bar nei pressi dell’Università, lo spiazzo di una villa a Commenda, un ristorante-trattoria nei pressi di Cosenza Nord. Colpiva la passione per la ricerca: il senso della ricerca e la ricerca di senso, forse il vero impegno militante dell’intellettuale. I media nazionali ogni tanto andavano a sbeccare le uscite apparentemente provocatorie – ce ne è traccia anche nelle varie enciclopedie online.
Ad esempio, quando si produsse in una complicata e controversa dichiarazione sulla lotta armata e sulla sua “etica di guerra”: dietro quell’eloquio ora fendente ora altisonante, Piperno stava in realtà fotografando un dato di realtà. Se la sovversione in Italia ha una stagione di riferimento molto più lunga degli altri Paesi europei (in termini di militanti coinvolti, anni di durata e quantità delle sue organizzazioni), è storiograficamente e oggettivamente dovuto alla almeno iniziale coesione intrinseca che connotava quell’ambiente. Cosa rende altrimenti un dato un fenomeno e un fenomeno una traiettoria di radicamenti? Evidentemente, chi ne fa parte dialoga per il tramite di uno stesso linguaggio (mano a mano, tuttavia, sempre meno comunicativo per le istanze sociali diffuse) e di una pratica (giusta o sbagliata che la si intenda) della stessa scelta.
O quando Piperno si soffermò in una sua riflessione a stampa sull’attentato di New York dell’11 Settembre 2001: lì non fu capito, perché metteva bocca su uno di quegli argomenti così luttuosi che il senso comune assegna loro il totem del silenzio. E anche lì, tutto sommato, non si può negare una capacità di lettura allo studioso calabrese: quando scomoda le categorie del linguaggio poetico, lui negli anni mano a mano studioso della poetica e della lirica classica, vuole sottolineare che il grave gesto omicidiario ha rappresentato semiologicamente uno spartiacque. Ha disegnato, ahinoi, un prima e un dopo: sui diritti, sulla percezione della politica globale, sulla definizione di sicurezza, sugli spazi valicabili e su quelli invalicabili. Parve esaltazione del fondamentalismo e, per carità, l’equivoco ci stava e, se interpretata a senso unico, quella frase aveva un che di inquietante. E solo quello tuttavia non era. Inutile la damnatio memoriae: questo è stato, questo bisognava a suo avviso mettere a verbale.
Poi, di quelle dichiarazioni, se ne diede sostanza polemica il tempo, appunto, di una polemica nella società italiana: tumultuosissima nell’occhio del ciclone, e pian piano semplice etichetta per catalogare un pensiero, un commento, addirittura una persona.
Di due aspetti del Piperno “senile”, perdonateci la semplificazione, non esiste quasi racconto collettivo e invece sono meritevolissimi e il fatto che siano stati disattesi è gravemente indicativo del dove ci troviamo oggi. Innanzitutto, fu sempre voce esposta a ogni controriforma universitaria, qualunque colore politico ne prendesse la bandiera: ogni taglio, ogni cambiamento involuto, introflesso e burocratico, Piperno lo attaccava da militante, senza pretese dalla cattedra. E Piperno fu tra i pochissimi a difendere una memoria civile del 1968: oggi che è moda addebitargli la feroce auto-indulgenza dei dinosauri della nostra classe dirigente, il fisico meridionale ne ricordò semmai quegli aspetti di liberazione che fu proprio il potere a destituire, a respingere cocciutamente. C’era nel Piperno meridionalista, discepolo di Vico e Telesio, imbevuto di una nozione quasi drammatica dell’amicizia mediterranea (come Achille e Aiace, come in un certo senso il dialogo intellettuale e affettivo tra lui e l’altro meridionalista Alcaro), una sorta di propositivo ottimismo: la trasformazione della sconfitta in entropia, in carburante della socialità. Fosse vissuto ancora dieci anni, ci avrebbe probabilmente insegnato che la rivoluzione altro non è che il liquido intercellulare in cui si nutre la speranza della trasformazione.