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04/06/2022 ore 19.30
Politica

Ciacco: «Ecco perché dico Sì ai referendum sulla giustizia»

Il consigliere comunale di Cosenza: «Oggi, l’assetto istituzionale, in Italia è affetto da una malattia: è malato l’equilibrio dei poteri. Ed è una malattia di non recente insorgenza»
di Redazione

di Giuseppe Ciacco*

Una giustizia giusta ed efficiente rappresenta il cuore di un’autentica politica riformista. Una giustizia giusta ed efficiente non significa tarpare le ali alla Magistratura. Significa, piuttosto e propriamente, restituire alla Magistratura la sua fisiologica collocazione. Che è quella di essere il terzo potere dello Stato, dotato della funzione, eminentemente, arbitrale.

Oggi, l’assetto istituzionale, in Italia è affetto da una malattia: è malato l’equilibrio dei poteri. Ed è una malattia di non recente insorgenza. In Italia è in crisi il modello di tripartizione dei poteri, così per come, plasticamente e modernamente, disegnato da Montesquieu a metà del 18^ secolo.

Nelle democrazie parlamentari – e l’Italia è una democrazia parlamentare – il modello sagomato da Montesquieu, è entrato, profondamente, in sofferenza. Infatti, nelle democrazie parlamentari, la maggioranza, che esprime il governo è esattamente la stessa che fa le leggi! Si è realizzata, insomma, una confusione e una sovrapposizione fra 2 poteri, dando vita a un unico potere, che si pennella la faccia, per metà, di legislativo e, per metà, di esecutivo. Rispetto a questo unico potere la Magistratura, abdicando alla sua funzione di arbitro, si è trasformata nella controparte dell’altro potere. All’innaturale evaporazione distintiva dei 2 poteri (esecutivo e legislativo) ha corrisposto – e continua a corrispondere – una innaturale ipertrofia dell’’altro potere.

Viviamo in una condizione di democrazia giudiziaria, che ha assunto il controllo della politica rappresentativa, mettendola in libertà vigilata. I magistrati occupano il ponte di comando. Una condizione, che confessa qualche aspetto illiberale e autoritario. E, allora, è necessario ricostruire un ragionevole equilibrio, capace di salvaguardare, tanto l’indipendenza dei magistrati, quanto le prerogative della politica rappresentativa. Per far nascere un modello somigliante a una democrazia liberale.

Gli eccessi di protagonismo di alcune procure inquietano e allarmano. Il giustizialismo giudiziario è un potente veleno per la democrazia. Gli avversari politici si sconfiggono nell’agorà delle idee. Non è una esagerazione dire che il futuro della democrazia italiana dipende da come verranno affrontati i nodi della giustizia. E, allora, ben venga l’iniziativa referendaria. Che né depotenzia, né delegittima la funzione legiferante del Parlamento. E’ sterile l’argomento, secondo il quale “la riforma della giustizia si deve fare in Parlamento”. E’ vero: – e ci mancherebbe altro – la sede naturale delle riforme è il Parlamento.

Ma sono vent’anni che il Parlamento discute delle riforme della giustizia. Senza, mai, licenziare un corpo normativo organico e adeguato. Anzi, confezionando, in non rare occasioni, novelle sfacciatamente liberticide. La disciplina Bonafede sulla prescrizione docet! Una disciplina, che è una, vera e propria, controriforma di stampo borbonico. E, anche, la riforma della guardasigilli Cartabia fatica a lievitare. E, allora, ben venga l’iniziativa referendaria. Che esalta il valore del pronunciamento popolare, attraverso il quale si ripristina il primato della politica. Che si prospetta come provvido strumento di pressione, affinchè il Parlamento faccia la propria parte. Che si profila come spinta alla forze parlamentari per andare avanti. Certo, non nascondo che la proposta referendaria interseca alcuni dei punti più divisivi del dibattito, ormai decennale, sulla giustizia. E, allora, non guasta vedere nel dettaglio la struttura della proposta referendaria.

Infondate, ma anche ipocrite, sono le polemiche legate ai quesiti sulla legge Severino e sulla custodia cautelare. Lo strumento della custodia preventiva in carcere ha subìto una radicale metamorfosi: da istituto con funzione prettamente cautelare, è stato trasformato in una vera e propria forma anticipatoria della pena, con evidente violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Secondo il sito “Errori giudiziari”, che si occupa, con competenza e dovizia di numeri, dei casi di mala giustizia, in Italia, “dal 1992 al 31 dicembre 2020, si sono registrati 29.452” episodi di ingiusta detenzione legati alle misure cautelari; “in media, 1015 innocenti in custodia cautelare ogni anno”. La domanda referendaria è finalizzata a limitare, provvidamente, la possibilità di ricorrere al carcere prima di una sentenza definitiva.

La legge Severino prevede che, per talune specifiche ipotesi di reato, in caso di condanna superiore a 2 anni di reclusione, sia comminata automaticamente la sanzione accessoria dell’incandidabilità. Il quesito referendario, sullo specifico punto, è, strumentalmente, contrabbandato come un salvacondotto in favore dei politici corrotti. Senonchè non è così. Infatti, il quesito vuole incidere, esclusivamente, sull’automatismo della sanzione accessoria. Rimettendo, invece e a ragion veduta, al prudente apprezzamento del Giudice la valutazione circa l’opportunità di applicare l’interdizione dai pubblici uffici, tenendo conto della specificità di ogni singolo caso concreto.

La separazione delle carriere dei Magistrati è tema, malamente, agitato, perché, surrettiziamente, ,propagandato come antidoto allo spirito corporativo della categoria. Qualcun altro eccepisce che la separazione delle carriere priverebbe i pubblici ministeri di “quella cultura della giurisdizione”, che permette ai magistrati inquirenti di agire nell’interesse della collettività. Entrambi gli argomenti confessano la loro intrinseca fragilità. Certo è che, già 30 anni fa, Giovanni Falcone metteva a verbale l’insopprimibile esigenza di separare le carriere, sul presupposto che “la regolamentazione delle funzioni e delle stesse carriere dei magistrati dell’ufficio del Pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse, essendo, le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il P.M., arbitro della controversia il Giudice”. La proposta referendaria milita, coerentemente, a favore della separazione, da intendere, correttamente, come utile strumento per un sano e fisiologico antagonismo tra poteri, vero presidio di efficienza e di equilibrio del sistema democratico.

Le regole per le elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura, indubbiamente, reclamano una radicale rivisitazione. La questione è complessa. Il “caso Palamara” è, solo, la punta dell’ iceberg, che ha portato alla luce i guasti che il sistema delle correnti ha generato all’interno del CSM. Un sistema, che deve essere sradicato. E il primo passo per poterlo sradicare è quello di superare il potere di veto delle correnti, sempre più somiglianti a degeneranti maschere partitocratiche. Bisogna, invece, permettere a tutti i magistrati di candidarsi, senza dover sottostare al condizionamento delle correnti e senza dover sottostare al vincolo delle firme per la presentazione della candidatura. Il quesito referendario va, appositamente, in questa direzione.

I Consigli giudiziari sono gli organi dove si valuta anche la professionalità dei magistrati e registrano, al loro interno, oltre alla componente togata, anche la presenza di una componente minoritaria “non togata”, rappresentata da avvocati e professori universitari. Tuttavia, quando si tratta di discutere o valutare lo status dei magistrati, la componente non togata è esclusa dalle discussioni e dalle votazioni. Si tratta di una esclusione, che appare – ed è – anacronistica. Sarebbe, viceversa, utile e maturo il riconoscimento di un ampio “diritto di parlare dalla tribuna” anche in favore dei componenti laici nei Consigli giudiziari, ogni qual volta è all’ordine del giorno la valutazione professionale dei magistrati. Sulla specifica questione, il quesito referendario è teleologicamente orientato, proprio, a superare l’antiquato principio della giustizia solo domestica della magistratura. E, allora, io sono fermamente persuaso che l’iniziativa referendaria può, effettivamente, rivendicare il pregio di far emergere la profondità della crisi, nella quale versa il sistema giustizia.

Nella prospettiva di introdurre correttivi giusti e adeguati. E’ sbagliato etichettare, assai sbrigativamente, la proposta referendaria come uno strumento di lotta politica. Il referendum è l’unico strumento di democrazia diretta previsto dalla Carta costituzionale. Non è uno strumento contrapposto alla democrazia rappresentativa. Piuttosto è uno strumento complementare alla democrazia rappresentativa. E, allora, la proposta referendaria sui temi della giustizia può essere un fecondo banco di prova per avviare un confronto plurale e partecipato, che possa diventare, in un clima di sobria compostezza, anche parte di un percorso di crescita culturale del Paese. Per riaffermare e irrobustire i valori fondanti dello Stato di diritto. (*consigliere comunale)