Allerta meteo a Cosenza, la paura che continua ad abitare dentro di noi
Il trauma collettivo della Pandemia, rimosso forse troppo in fretta e ad oggi non ancora elaborato,
ha probabilmente indebolito la nostra capacità di affrontare ed elaborare l’angoscia
Ieri, a Cosenza, è stata ordinata la chiusura delle scuole per “allerta meteo arancione”. Bambini e ragazzi a casa, e conseguentemente genitori in ferie forzate. Anche l’Università ha sospeso le attività: lezioni e, soprattutto, sessioni di laurea rimandate – con buona pace delle feste preparate da tempo. Ebbene, non è caduta neanche una goccia d’acqua. Molti si sono arrabbiati, altri si sono limitati a scrollare le spalle. Io ho provato a riflettere su questa dinamica e mi sono reso conto che con la Pandemia, probabilmente, qualcosa è cambiato.
Il trauma che abbiamo vissuto per oltre due anni sembra aver modificato il nostro modo di reagire ai pericoli e alle calamità. E questo non solo perché la morte è tornata a essere una possibilità reale, improvvisa, sconvolgente, ma anche per la dinamica collettiva con cui è stato vissuto quel trauma. Vivere un evento traumatico insieme ad altri può rappresentare un fattore di protezione: la solidarietà materiale, il sostegno reciproco, la possibilità di condividere emozioni e significati possono favorire la costruzione di un senso e contenere l’angoscia; il gruppo, cioè, può rappresentare un fattore positivo di resilienza e agevolare, progressivamente, il ritorno alla “vita di prima”.
Tuttavia, proprio perché si tratta di una dimensione gruppale, anzi collettiva, possono emergere altri “copioni psicologici”. Pensiamo ad esempio a chi, dopo un terremoto, continua a dormire vestito e con la valigia pronta in auto. Non riesce a riporre i vestiti nell’armadio, benché l’evento catastrofico sia ormai lontano, e accetta di vivere in questa tensione permanente come modalità di controllo delle sue emozioni profonde, ai suoi occhi ben più catastrofiche dello stesso terremoto.
Questo comportamento trasforma l’evento – che ormai è passato – in una sorta di “fantasma” sempre presente, del quale col tempo non si ha più paura e che anzi assicura la propria tenuta emotiva. Inserito in un gruppo, può ostacolare la costruzione di significati condivisi e quindi il superamento collettivo del trauma, poiché ciò determinerebbe la scomparsa del “fantasma” di cui ha bisogno. Quando l’angoscia non viene trasformata in pensiero ed in azione creativa, una delle conseguenze è il conflitto, non solo personale ma anche collettivo.
Forse proprio da questa dinamica derivano, almeno in parte, i moti emotivi che stanno attraversando ultimamente la nostra società. Abbiamo bisogno di un’elaborazione simbolica, cioè di una “parola” che restituisca senso al dolore collettivo, accompagnando anche chi, ancora oggi, continua a “dormire vestito” e con la “valigia pronta in auto”. Il problema è che chi dovrebbe pronunciare questa “parola” – la cultura, la scuola, le religioni – sembra a sua volta indebolito dal trauma collettivo. Anche queste istituzioni, che un tempo svolgevano la funzione paterna e simbolica della società, oggi appaiono fragili: faticano a nominare l’angoscia collettiva, a darle senso, a mediare tra l’emozione e il pensiero.
Eravamo così poco abituati alla morte che la Pandemia ha ferito non solo le persone, ma anche i simboli che le tenevano insieme. Abbiamo bisogno di un “padre” che ci inviti a non aver paura. Uno dei papi più amati, Giovanni Paolo II, scelse come parola guida proprio questa: “Non abbiate paura”. Un invito che non è solo teologico, ma profondamente psicologico: ricordarci che la paura si può pensare, attraversare, trasformare. Forse oggi dovremmo tutti ripartire da lì.
*psicologo del profondo