Cosenza Vecchia vent'anni dopo: ci siamo venduti una realtà che non esiste
Sono da tempo convinto che sul centro storico ci siamo venduti una realtà che non esiste. E non perché lo abbia appreso da chissà quale reportage giornalistico o analisi socio-urbanistica. Basta parlare del centro storico con chi centro storico vive. Con chi centro storico è. Ci siamo raccontati l’incredibile e magnetica bellezza dei suoi luoghi, ambienti e monumenti pensando fosse una magia autosufficiente, nata schermata già dai crolli, dai calcinacci, dalla disoccupazione, dalle mancanze d’acqua, dai cumuli di sacchi e di immondizia a qualche crocicchio, dalle droghe di scarto.
Da questo punto di vista, la stessa città che anche genuinamente ama il suo centro storico non gli ha fatto un buon servizio. E questa retorica, ahinoi, viene da anni meravigliosi della storia cittadina – e probabilmente delle nostre individuali esistenze. Gli anni in cui Cosenza di notte era Cosenza Vecchia, con l’aria frizzante e l’afa in Villa, le luci al castello, i locali per bere e mangiare ogni sera sold out come fosse la nostra Promenade des Anglais o la nostra Canebière.
Quell’immaginario ci è entrato nell’anima e così ce lo siamo conservato. Solo che oltre due decenni più tardi non avevamo ancora il nostro Dumas che ci dicesse quante rughe e quanta malattia, quanta resilienza e quanta resistenza, quanta sconfitta e quanta residua possibilità di vittoria custodissero i nostri “vent’anni dopo”.
Nelle festività ho finalmente avuto modo di leggere il tassello mancante, lo splendido libro fotografico che Francesco Bozzo dedica alle vedute della città vecchia, edito da Coessenza, e istoriato da veloci, meditate, didascalie di Claudio Dionesalvi. Poco da dire sullo storyboard di Dionesalvi: pennellate che poco si concedono alla mimesi poetica e che molto di più lasciano alla nemesi critica. Tanta aneddotica di quartiere, considerazioni glottologiche a corredo. Dionesalvi è un umanista, in quella cifra che piace ai Chomsky e Tramper. Il linguaggio è costruzione di comunità e pensiero, è la koiné ancora prima e già dentro la polis.
Quello che nel volume ulteriormente appassiona è proprio lo sguardo che Bozzo riesce a dare su pagina. Il fotografo ha un rapporto rabdomantico con la luce: cerca la suggestione come i vecchi sciamani con l’acqua. Disseta la mente attraverso il fiume degli occhi. E la terra delle confluenze non poteva che prestarsi alle sue zampate. Che mettono a verbale della bellezza quello che non sappiamo pronunciare per vergogna o indifferenza, senso di colpa o inettitudine: la rovina. Quel rischio di macerie che segue la bellezza come l’ombra fa col condannato al patibolo. Perché ci sono indubbiamente scatti stupendi che farebbero la gioia di qualsiasi albergatore, dirigente scolastico, assessore al turismo: la città di piccola taglia e grande storia finalmente nuda, senza trucchi e parrucche. Una nudità che ha sempre il sapore virginale della prima volta, l’euforia convinta del corteggiamento, l’ebbrezza di una lucidità improvvisa.
Questi piccoli Dumas di alcuni secoli dopo mettono nel mirino anche l’inenarrabile: il vicolo e la sofferenza, la vecchiaia e la fatica, la cenere e l’oblio. E Bozzo qui giganteggia di improvvisa sincerità, le istantanee della vita umida e dura che si issano esattamente come la magnificenza delle vedute. Sempre con la delicatezza di un’incantevole scoperta di luce.
In Toscana conobbi una latinista inglese da tempo trapiantata in Italia (categoria professionale che sta sparendo, coi danni che sono sotto gli occhi di tutti). Mi incantò spiegandomi come a suo avviso sin dall’etimologia “sovvertire” e “ovvio” fossero termini esattamente contrari. Sovvertire l’ovvio col tatto… Quello, sì, che è lavoro duro e impervio, sottrae più che aggiungere, mesce più che divorare. E quando mai la delicatezza per essere sorpresa e rivelazione ha potuto fare a meno della rivoluzione?