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27/11/2022 ore 09.00
Societa

Ecco la storia della roglianese Rosina, la prima donna che si oppose al matrimonio riparatore

Lo storico Caravetta ricostruisce nel dettaglio la vicenda che precedette di 72 anni quella della siciliana Franca Viola
di Alessia Principe

Le cronache raccontano dell’eroismo di Franca Viola, prima donna a opporsi, nel 1966, a un matrimonio riparatore. Divenne una bandiera, un simbolo di emancipazione e coraggio. Su tutte una sua frase restò scolpita nella memoria collettiva, diventando un motto fulgido. «Io non sono proprietà di nessuno – disse – nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce». La sua vicenda, triste, la vide protagonista di una violenza che invece di essere “appaciata” al modo del tempo, finì in Parlamento e poi in tribunale. Eppure, come spesso accade, il primato è solo questione di notorietà.

La passeggiata fatale a Santo Stefano di Rogliano

A spulciare le carte, certi fatti nascosti tornano alla luce ribaltando certezze storiche. Così è nel caso di Franca Viola che ebbe un precedente più antico e calabrese. Rosina Nicoletti, settantadue anni prima di Franca, a Santo Stefano di Rogliano (Cosenza) reagì a una violenza senza mai cedere alla rassegnazione. A ricostruire l’intera vicenda è la penna colorata dell’antropologo Francesco Caravetta, che racconta la storia nel suo prezioso “Antichi delitti” (Teomedia).

Siamo nel 1894 in una caldissima giornata di agosto. Rosina è solo una ragazzina, ha diciassette anni, e insieme alle amiche, si mette in cammino per raccogliere della legna. Sfortuna vuole che a incrociare il passo delle giovani sia un malandrino, tale Santo Saporito, che con la complicità dei familiari trascina la ragazzina nel casolare per possederla. Il passo che Caravetta riporta mette i brividi. Le urla della giovane allarmano i contadini dei dintorni che subito vengono rassicurati dal padre del farabutto che così chiude la questione: «Non è niente, non è niente perché la sposa».

L’intervento della madre e del padre di Rosina, e la convinzione che ormai la ragazza è così compromessa da essere per forza destinata a sposarlo, convince Santo a lasciarla andare. Ma le cose non andranno come pensava. Rosina, giovane sveglia, colta e molto combattiva, se ne va dritta dritta dai carabinieri e denuncia il ragazzo.

«Ma perché non te lo sposi?»

«Ti ha usato violenza?» le chiedono i gendarmi. E lei: «Contro di me non venne usata alcuna violenza; Saporito mi rapì a scopo, per come egli asseriva, di matrimonio». La incalzano. «Ma allora perché non lo sposi?» insiste il maresciallo quasi seccato. Ma lei è irremovibile: «Io non ho mai avuto, come non ho, intenzione di sposarlo e perciò espongo querela contro di lui e dei suoi complici!» La cosa finisce sulla scrivania del Pretore che predispone l’interrogatorio di Santo, suo fratello, suo padre e tale Antonio Polito. Le parole del ragazzo, che parla di un’accondiscendenza da parte di Rosina e di suo fratello, stridono con la deposizione della ragazza.

Il 18 ottobre 1893, il pretore, che non si fa incantare dalla versione di Saporito, rinvia al giudizio del Tribunale Penale di Cosenza tutti e quattro gli indagati. Rosina, con determinazione, si costituisce parte civile con sua madre. Santo Saporito, Vincenzo Saporito e Antonio Polito vengono condannati a 10 mesi di detenzione; Gaetano Saporito a 5 mesi. Per tutti le pene accessorie, spese e danni. Ma la cosa non finisce qui, i quattro fanno ricorso e un anno più tardi la Corte d’Appello delle Calabrie assolve Vincenzo Saporito, Gaetano Saporito e Antonio Polito e riduce la pena a Santo Saporito a mesi sei e giorni venti di detenzione. Ingiustizia fu fatta e anche la storia fece la sua parte.