Halloween è un’antica tradizione calabra: è la notte dei “coccalu di muortu” e delle lanterne dei defunti
Molto prima che arrivasse dagli Stati Uniti, la notte di Halloween viveva già nei borghi calabresi, tra zucche intagliate, candele accese e bambini che chiedevano offerte per i defunti. Un viaggio nelle radici meridionali della festa più misteriosa dell’anno
Nel cuore della Calabria, tra montagne e colline immerse nei colori d’autunno, la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre non è mai stata una notte qualunque. Prima ancora che si parlasse di Halloween, nei paesi calabresi si accendevano zucche svuotate, si preparavano lumini per i defunti e si raccontavano storie di spiriti e di anime in cammino.
La festa aveva nomi diversi a seconda delle zone, ma ovunque conservava lo stesso significato: la notte in cui il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano. A Serra San Bruno, come in molti borghi delle Serre e del Reventino, i bambini intagliavano zucche a forma di teschio, infilando al loro interno una candela accesa. Quelle lanterne, traballanti e suggestive, venivano chiamate “coccalu di muortu”, cioè “teschi di morto”.
I piccoli, reggendo le loro lanterne, giravano per i vicoli bui bussando alle porte e chiedendo offerte con la formula dialettale: “Mi lu pagati lu coccalu?” — “Mi lo pagate il teschio?”. In cambio ricevevano dolci, frutta secca, pane o qualche moneta. Un rito di passaggio e di memoria, che oggi somiglia al “dolcetto o scherzetto” anglosassone ma ne precede di secoli l’origine.
La notte dei “coccalu di muortu” era una commistione di fede, paura e gioco. I contadini credevano che in quella vigilia le anime dei defunti tornassero a visitare le case. Per questo, oltre a illuminare le zucche, lasciavano un posto libero a tavola, una candela alla finestra o una ciotola di acqua e grano per “dare ristoro” agli spiriti in visita. Era un modo per onorare i morti, ma anche per esorcizzare la paura dell’ignoto.
Nel Cosentino si preparavano tavole votive, nel Catanzarese si accendevano fuochi nei cortili e nel Vibonese i bambini sfilavano con le zucche illuminate fino ai cimiteri.
Non mancavano racconti popolari di magàre, anime erranti o figure notturne che attraversavano i paesi in cerca di redenzione, un immaginario che ancora oggi vive nei racconti tramandati dagli anziani.
Con il tempo, queste usanze si sono trasformate. L’emigrazione calabrese, soprattutto verso gli Stati Uniti, ha portato oltreoceano anche alcune di queste tradizioni, che si sono poi intrecciate con quelle celtiche e anglosassoni, contribuendo alla nascita dell’Halloween moderno.
Quando la festa è tornata in Italia negli anni Novanta, la Calabria l’ha accolta come qualcosa di familiare, riconoscendo inconsapevolmente in essa i segni del proprio passato.
Oggi, accanto alle feste in maschera e alle decorazioni importate, molti borghi calabresi riscoprono le proprie radici popolari: laboratori per intagliare le zucche, passeggiate notturne nei cimiteri illuminati da fiaccole, racconti di paura e memoria nei vicoli antichi.
È un modo per riunire generazioni e recuperare il significato autentico della notte tra Ognissanti e la Commemorazione dei Defunti: una notte in cui il buio non spaventa, ma ricorda che la vita e la morte fanno parte dello stesso cammino.
In Calabria, dunque, Halloween non è un’invenzione moderna: è una festa che appartiene al ritmo delle stagioni, alla saggezza contadina, al mistero del ritorno. Una notte in cui, accanto alla zucca illuminata, si accende anche la memoria di chi non c’è più.