Le parole di uno studente all'esame di maturità diventano virali: «Per la prima volta, qualcuno mi ascolta»
Confessioni da un liceo di Bologna: lo studente si racconta e denuncia una generazione cresciuta tra assenze emotive e bisogno di autenticità
Sei adulti seduti in silenzio, finalmente pronti ad ascoltare. Per la prima volta in diciotto anni di vita, Marcello – studente di un liceo di Bologna – si trova davanti a una platea che non ha fretta, che non deve correre altrove, che per quei preziosi minuti esiste solo per lui. Niente notifiche, niente telefonate, niente agende da rispettare. Solo lui, e il suo racconto.
La sua confessione a La Stampa ha il sapore di una rivelazione generazionale: «Del voto finale m’interessa davvero poco: per una volta vorrei semplicemente essere guardato. Non dico compreso – non pretendo troppo. Ma visto sì. Per quello che sono, e non per quello che vorrebbero che fossi».
Marcello non parla soltanto di sé. Parla per tanti. Parla di una generazione che chiede ascolto, ma troppo spesso viene fraintesa come lamentosa, viziata, o immatura. Parla di quei ragazzi che vediamo ogni giorno a scuola, per strada, in famiglia, ma che raramente ascoltiamo davvero. Quella frase – “vorrei essere guardato” – è uno specchio che interroga il mondo adulto, la scuola, le famiglie, la società.
Un’aula trasformata in teatro
Lo racconta anche un’insegnante, intervistata poco dopo la pubblicazione dell’articolo: «Ai miei studenti dico di vivere l’orale come un piccolo teatro. È l’unico momento in cui il mondo adulto li ascolta senza interromperli, senza correggerli, senza cercare di aggiustarli. Per pochi minuti, sono loro a parlare, e noi a stare zitti».
In un tempo dominato dalla performance, dall’efficienza, dall’iperconnessione, la maturità – paradossalmente – diventa l’unico spazio di ascolto autentico. Un’eccezione, quando dovrebbe essere la regola. Un punto di arrivo che rivela, con amara chiarezza, tutto ciò che è mancato prima.
Sotto l’ansia da prestazione, i voti, le simulazioni, le griglie ministeriali, c’è qualcosa di più profondo: un rito in cui i giovani chiedono di essere riconosciuti come persone, non solo come studenti.
L’ascolto negato
Eppure, come sottolinea una madre tra i commenti all’articolo, «riempiamo le giornate dei nostri figli di attività, corsi, laboratori, ma ci sediamo poco a parlare con loro». Il tempo del dialogo è stato fagocitato dall’efficienza. La scuola, oberata da burocrazie e programmi da concludere, fatica a costruire spazi di relazione.
Ma il paradosso è ancora più grande: si parla tantissimo di giovani, ma pochissimo con loro. Si analizzano i dati sul disagio giovanile, si stilano rapporti psicologici, si promuovono campagne educative, ma si dimentica l’atto più semplice e potente: ascoltare. Sedersi. Tacere. E lasciare spazio.
Marcello lo dice senza rabbia, con una calma che fa più male dello sfogo: «Non chiedo di essere capito. Ma visto, sì. Guardato per quello che sono, non per quello che vorrebbero che fossi».
“Io ti credo” dovrebbe essere normale
«Io ti credo» – dice una madre, intervistata in un contesto diverso – «è ciò che dico ai miei figli ogni giorno. Non solo prima di un esame. Non solo quando devono dimostrare qualcosa». È una frase semplice, ma rivoluzionaria. Perché implica fiducia, spazio, presenza.
Nel nostro modello educativo, spesso i giovani devono “guadagnarsi” l’ascolto. Devono meritarselo con buoni voti, con un comportamento impeccabile, con performance straordinarie. E anche quando ci riescono, rischiano di essere visti solo come “bravi studenti”, non come persone complesse, fragili, piene di domande.
Il bisogno di essere riconosciuti è antico quanto l’essere umano. Ma oggi, più che mai, i ragazzi vivono una contraddizione dolorosa: crescono iperconnessi ma profondamente soli, circondati da parole ma privati del dialogo.
Generazione smartphone?
C’è chi accusa Marcello e i suoi coetanei di vittimismo. «Ai miei tempi non ci ascoltava nessuno e siamo sopravvissuti» – scrive qualcuno. Oppure: «Questi ragazzi hanno tutto e si lamentano sempre». È una reazione comune. Ma anche miope.
Non si tratta di stabilire chi abbia sofferto di più, né di stilare classifiche del disagio. Si tratta, piuttosto, di riconoscere un bisogno autentico: quello di essere guardati senza giudizio, di essere ascoltati senza diagnosi, di essere accompagnati senza essere spinti.
Dietro le etichette – “generazione Z”, “generazione smartphone”, “fragili digitali” – ci sono persone. Storie. Ragazzi come Marcello che, una volta tanto, vogliono essere guardati per ciò che sono, non per ciò che il mondo adulto pretende.
Il peso del giudizio
L’esame di maturità è, nella sua essenza, un grande spettacolo di giudizio. Ma nella storia di Marcello, qualcosa cambia: quel momento di giudizio si trasforma in una richiesta di umanità.
Non è il voto che conta. È lo sguardo. È il silenzio che lo precede. È il rispetto che si percepisce quando chi hai davanti smette di recitare il ruolo dell’adulto in cattedra e si concede, semplicemente, ad ascoltarti.
In questo senso, la maturità non è solo un esame scolastico. Diventa una prova di verità. Un’occasione rara – forse irripetibile – in cui si può essere se stessi senza mediazioni.
Il teatro della vita adulta
Un ex studente, leggendo l’intervista, scrive sui social: «La vera prova non è stata la maturità. È stato parlare davanti a venti colleghi in una riunione, sapendo che ognuno ti giudica in silenzio. La scuola almeno ti dà la scena».
È una riflessione amara. La vita adulta è piena di performance, di esposizione, di giudizi impliciti. Ma quasi mai offre uno spazio autentico in cui parlare di sé, senza strategia, senza maschere. In questo senso, la scuola, pur con tutti i suoi limiti, rimane uno degli ultimi spazi in cui si può ancora sperare di essere ascoltati.
Ma deve volerlo davvero. Deve cambiare passo. Uscire dal tecnicismo. Riconoscere che il tempo dedicato a un dialogo autentico non è “perso”, ma formativo.