Natale, tra racconti e leggende ancestrali. Quando il sacro abbraccia il profano
Con la notte più lunga dell’anno del 21 dicembre è iniziato il blu dell’inverno profondo. La terra avvolta nella morsa stretta del freddo, spaccata dalla temperatura rigida, si è raggomitolata nel letargo mentre in superficie il gelo spacca le mani e le zolle. Il sole sfiora al tramonto il punto più basso della linea dell’orizzonte (nadir), quasi a baciare la terra, mentre le ombre si allungano sinistre a inghiottirne il disco prima della rinascita definitiva. Una sorta di morte e resurrezione della “Vita”, “solve et coagula”, un momento che si è mescolato nei secoli alla tradizione cristiana e pagana, ai riti magici e al folklore popolare.
Il Natale dell’epoca pagana e il Re Cervo
Secondo il calendario “giuliano”, il Solstizio d’inverno era fissato ab origine il 25 dicembre. Quello che per i cristiani è il Natale, per i riti pagani era detto “Saturnalia”, “Yule” per la popolazione germanica, “Festa della Luce” o in celtico “Alban Arthuan” (cioè rinascita del Dio Sole o di Artù). Secondo alcune leggende nord-europee del mezzo inverno, la notte del Solstizio d’inverno coincideva con la nascita di Re Artù, o Gwydon, identificato come una sorta di divinità portatrice di pace e luce nel mondo, quasi un Messia, allevato dai Druidi e lasciato a giacere nella mitica isola di Avalon in vista del suo ritorno al mondo. Il “Re cervo” che avrebbe donato fertilità ai campi e ai raccolti.
In Scandinavia il giorno del Solstizio lo Jòl, iniziava con una celebrazione dei morti che lasciavano i sepolcri, o le coste se periti in mare, per venire a far visita al mondo dei vivi prima del ritorno del sole. Temutissima era Berchta, divinità germanica, che cavalcava la notte invernale con a seguito uno stuolo di folletti, elfi e fantasmi di bimbi appena nati. Incontrarla voleva dire correre il rischio di scorgere nell’esercito delle ombre che la seguivano la propria, o quella di un caro destinato a morire entro l’anno. Nella notte solstiziale in cui lei visitava le case dei vivi, nessuno doveva osare spiarla pena l’accecamento o la morte.
Ma la notte più lunga dell’anno era anche il momento in cui era possibile superare i confini spazio-temporali e guardare il passato e soprattutto il futuro. Le ragazze mettevano un tozzo di pane sotto al cuscino e se il mattino dopo lo trovavano consumato si sarebbero sposate nei prossimi 12 mesi. Tradizioni più risalenti celebravano la notte del Solstizio come la morte e resurrezione della vita.
“Getta via, o uomo (o donna) tutto ciò che si frappone al comparire della luce” cantavano i Druidi accendendo, con una pietra focaia verso Oriente, una lucerna sollevata sul bastone sacro.
Il momento era solenne. Da quell’istante in poi progressivamente le notti si accorciavano e il calore della luce solare iniziava a irrobustirsi. Nei campi si svolgevano riti propiziatori e si accendevano fuochi per chiedere alle divinità abbondanza nei raccolti e messi sane e invitare il sole a tornare a riscaldare i campi. Uno dei simboli della notte solstiziale era il vischio, che i Druidi consideravano una pianta sacra. Il ramoscello utilizzato nei riti veniva reciso dall’albero su cui stava nascendo.
La scopa del fulmine
La raccolta della pianta, considerata il rimedio per scacciare gli spiriti del male, avveniva in due occasioni: a Samhain e nel Giorno di San Giovanni. Nei secoli passati il vischio era detto anche “scopa del fulmine”, in quanto si credeva che nascesse quando la folgore colpiva un albero e per questa sua natura sovrannaturale veniva tagliato utilizzando rigorosamente un falcetto d’oro zecchino. Così la vigilia solstiziale assumeva una veste magica. Quella notte a cavallo tra l’autunno e l’inverno era considerata una sorta di passaggio magico per l’acquisizione di poteri straordinari.
Si danzava fino all’alba per superare le tenebre che preludevano alla luce della “rinascita”. Nei borghi europei gli uomini dei villaggi inscenavano la “danza delle spade”, distribuendosi in cerchio da oriente a occidente, incrociando le armi verso l’alto e creando coreografie che culminavano nella raffigurazione della stella a sei punte che indicava il simbolo terrestre del sole intonando canti e preghiere. ”Il Sole ritorna sempre, e con lui la vita. Soffia sulla brace ed il fuoco rinascerà”.
La notte della Vigilia
La notte della Vigilia di Natale in Scandinavia era considerata un passaggio aperto verso il mondo dei morti. I cari defunti tornavano nelle case dei propri cari che lasciavano loro il pasto in tavola. Le leggende vogliono che terminata la cena, i trapassati lasciassero il focolare per farvi rientrare gli abitanti.
Il 25 dicembre, ritorno alla serenità
Si racconta che allo scoccare della mezzanotte del giorno di Natale la terra torni alla tranquillità del Primo Giorno. Alle prime luci dell’alba camminando nei boschi si potevano ammirare tutte le razze animali terrestri giacere l’una accanto all’altra, prede e predatori, accoccolati in pace.
L’ultimo dell’anno
Per buttarsi alle spalle il vecchio anno, in molti villaggi della Bretagna un vecchio fantoccio veniva portato in processione per le strade del paese prima di essere arso nella piazza centrale. La gente mascherata per non lasciarsi riconoscere dagli spiriti del male, scendeva in strada suonando tamburi e campane per scacciare i fantasmi prima dell’arrivo del nuovo anno.