“Tra la Champions e la libertà”, Michele Padovano a Belvedere Marittimo racconta la sua vita calcistica e giudiziaria
di Serafina Morelli
Da attaccante sui campi di calcio a instancabile difensore della propria vita. Convinto che, prima o poi, la verità sarebbe venuta a galla. L’ex calciatore Michele Padovano ha dovuto attendere 17 lunghi anni per vedere scritta, nero su bianco, la sua innocenza e oggi ha deciso di raccontare, con coraggio e sincerità, la sua storia nel libro “Tra la Champions e la libertà”, edito da Cairo.
«Giocare a calcio – racconta l’ex bomber di Cosenza, Pisa, Reggiana, Napoli e Juventus – ti forma molto a livello caratteriale, mi ha aiutato ad affrontare questa terribile vicenda. Sono un lupo, sono cresciuto qui sia come calciatore che come uomo. La mia forma mentis, da sempre, prevede di “non mollare mai”. Dicevo a me stesso: “Anche se ci volesse tutta la vita, da questa vicenda ne devo uscire fuori”. E così è stato anche se, purtroppo, ci sono voluti 17 anni. Anni bui, da incubo per me e la mia famiglia. Oggi, però, mi sento fortunato, ho deciso di raccontare la mia storia per dare forza a chi deve affrontare le problematiche della vita. La mia testimonianza può essere un insegnamento e aiutare altre persone».

Ieri nel corso della presentazione del libro a Belvedere Marittimo, Padovano ha ricordato gli anni trascorsi a Cosenza, dal 1986 al 1990, dove ha scritto una pagina importante della sua carriera, conquistando la promozione in serie B e sfiorando quella nella massima serie. Il “lupo” non ha mai smesso di seguire la squadra rossoblù: «È uno dei primissimi risultati che vado a vedere quando non riesco a seguirla in diretta, è l’unica squadra calabrese che non è stata in serie A quindi, secondo la legge dei grandi numeri, dovrà riuscirci prima o poi e io faccio un grande tifo per loro. E perché no? Sarei orgoglioso e onorato di fargli vincere il campionato».
Nel suo libro racconta l’amicizia con il suo ex compagno rossoblù, Gianluca Presicci: «Non ha mai dubitato di me, non mi ha mai abbandonato. Così come ha fatto Gianluca Vialli. Gli unici che mi sono stati vicini e hanno creduto in me. Ogni volta che la mia famiglia veniva a trovarmi in carcere, Vialli telefonava per sincerarsi delle mie condizioni. Non appena sono arrivato a casa è stata una delle primissime telefonate che ho ricevuto, eravamo talmente emozionati che non riuscivamo a parlare».
Ieri ad ascoltare Michele Padovano, nel corso della serata organizzata dall’amministrazione comunale di Belvedere Marittimo e dall’associazione Controvento, non c’era solo Presicci, ma anche i suoi ex compagni di squadra, Gigi De Rosa, Ciccio Marino e Alberto Urban. Il ricordo non poteva non andare a Denis Bergamini, con cui condivise anche la stanza. «Nel libro lo cito molte volte, è una storia che fa parte della mia vita. Denis è l’altro mio angelo custode. In tutti questi anni, ogni qualvolta sono stato chiamato a testimoniare nei processi, ho sempre percepito che non c’era la volontà di andare avanti. Spero che questo sia l’anno giusto e che quando arriverà la sentenza si faccia finalmente giustizia dopo trent’anni di attesa. Lo dobbiamo alla famiglia e a tutti noi che noi che gli abbiamo voluto bene».

Il figlio di Michele Padovano si chiama Denis, a dimostrazione del legame fraterno che c’era tra loro e non ha dubbi sul fatto che «la verità – che tutti noi conosciamo bene – verrà finalmente a galla. Nonostante il mio calvario lungo 17 anni, non ho mai perso la speranza, né la fiducia nella giustizia e nella magistratura: continuo a crederci così come ci ho creduto in questi anni. Sono sempre stato convinto che qualcuno si sarebbe reso conto che io in questa vicenda non c’entravo nulla. Alla fine, oggi sono qui e posso raccontarlo, posso dire di essere stato fortunato, tanti finiscono in carcere da innocenti o, peggio, si ammalano e muoiono senza avere giustizia».
Era il 10 maggio 2006 quando tre macchine gli sbarrarono la strada e quattro agenti in borghese lo trascinarono fuori dalla sua auto per portarlo alla caserma di Venaria Reale. Le perquisizioni, poi il carcere, i domiciliari, 17 anni di processo fino al 31 gennaio 2023, il giorno dell’assoluzione. Con il traffico di droga non c’entrava nulla, la verità ora è sotto gli occhi di tutti. Ma quanto è costata questa ricerca? «Oggi posso dire di essere un uomo migliore. Non ho più le cose materiali, ma ho una famiglia meravigliosa che mi è stata vicina nei momenti più bui dove in tanti già mi avevano giudicato e puntato il dito contro. Ma non porto rancore, sono andato avanti per la mia strada. Mi piacerebbe, però, riprendermi quello che mi è stato tolto con tanta ferocia, ma chiaramente 17 anni della mia vita non me li ridà indietro nessuno».
Il mondo del calcio, nel frattempo, è cambiato ma «alla fine le regole sono le stesse, anche se il calcio di vent’anni fa era più romantico. Percepisco molta sensibilità intorno al mio caso e questo mi lascia ben sperare per il mio futuro lavorativo. Ho l’attestato da direttore sportivo, ho fatto questo lavoro prima che accadesse tutta la vicenda, oggi non mi dispiacerebbe ritornare a lavorare nel mondo del calcio, dello sport. Lavorare con i giovani mi entusiasma ma servirebbe trovare anche una squadra, una società solida economicamente e che abbia dei progetti a lunga scadenza».